Covid: chi sottoscrive una falsa autocertificazione non commette reato


È quanto stabilito dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Reggio Emilia con la sentenza n. 54, emessa il 27 gennaio 2021
Covid: chi sottoscrive una falsa autocertificazione non commette reato

Con la sentenza n. 54 del 27 gennaio 2021, il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Reggio Emilia ha determinato un importante precedente giudiziario, destinato a far discutere, secondo il quale deve affermarsi l'illegittimità del DPCM dell’8/3/2020 per violazione dell’art. 13 Cost., con conseguente dovere del Giudice ordinario di disapplicare tale DPCM ai sensi dell’art. 5 della legge n. 2248 del 1865 All. E.

Nel caso posto all'attenzione del GIP, la Procura della Repubblica aveva richiesto l'emissione del decreto penale di condanna di due imputati a cui era stato contestato il reato di cui all'art 483 c.p., che punisce la falsità ideologica del privato espressa in un atto pubblico. Tale reato era stato ritenuto dal P.M. integrato in quanto la donna, compilando formale autocertificazione - al fine di giustificare l'allontanamento da casa in vigenza del DPCM che vietava gli spostamenti, se non per comprovati motivi di lavoro, salute o necessità - ha attestato falsamente ai Carabinieri di essere andata a fare degli esami clinici, accompagnata, mentre dai controlli effettuati è emerso che la signora non ha fatto alcun accesso all'ospedale.

Con riferimento proprio alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 483 c.p., rubricato "Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico", contestata agli imputati, osserva il decidente come “entrambi gli imputati sono stati “costretti”, proprio in forza di tale decreto, a sottoscrivere un’autocertificazione incompatibile con lo stato di diritto del nostro paese e dunque illegittima, per cui dalla disapplicazione delle disposizioni del DPCM, deriva necessariamente la non punibilità della contestata condotta di falso, giacché le esposte circostanze nel caso di specie escludono l’antigiuridicità in concreto della condotta e, comunque, perché la condotta concreta, previa la doverosa disapplicazione della norma che impone illegittimamente l’autocertificazione, integra un c.d. falso inutile, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere in relazione alla situazione giuridica in questione”.

Il DPCM dell’8/3/20, così come i successivi, stabilendo un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare.

È indiscusso come l’obbligo di permanenza domiciliare costituisca una misura restrittiva della libertà personale che, a sua volta, rappresenta un diritto fondamentale garantito dalla costituzione (art. 13 Cost.), e consiste, essenzialmente, nel diritto della persona a non subire coercizioni e/o restrizioni fisicheTale disposto garantisce, in buona sostanza, una tutela avverso gli abusi dell'Autorità e, specularmente, costituisce l'indispensabile condizione per poter godere dell'autonomia ed indipendenza necessarie per esercitare gli altri diritti fondamentali. Nell’ordinamento giuridico italiano, l’obbligo di permanenza domiciliare è una sanzione penale restrittiva della libertà personale che, per alcuni reati, può essere irrogata dal Giudice penale all’esito di un procedimento.

L’art. 13 della Carta costituzionale citata stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su “atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.

Primo corollario di tale principio costituzionale è la riserva di legge assoluta, ovvero la competenza esclusiva della legislazione ordinaria a disciplinare l'inviolabilità della libertà personale. Da ciò consegue che un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge.

Secondo corollario del medesimo principio costituzionale è quello secondo il quale neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge, qual è il decreto-legge) potrebbe prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l’obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini.

Invero, l’art. 13 Cost. postula una doppia riserva, sia di legge che di giurisdizione, dato che solo l'autorità giudiziaria può emanare provvedimenti restrittivi implicando necessariamente un provvedimento individuale, diretto nei confronti di uno specifico soggetto.

A ciò si aggiunga, inoltre, che nella fattispecie, trattandosi di DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), cioè di un atto amministrativo, il Giudice ordinario non sarà chiamato a rimettere la questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale, ma potrà procedere, direttamente, alla disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo per violazione di legge (Costituzionale).

Secondo un opposto orientamento, il DPCM sarebbe da considerarsi conforme a Costituzione, poiché determina delle legittime limitazioni della libertà di circolazione, di cui all’art. 16 Cost., e non della libertà personale, ex art. 13 Cost.

Tale assunto viene criticato dal GIP del Tribunale di Reggio Emilia, il quale evidenzia come la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà personale: i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici il cui accesso può essere precluso, perché ad esempio pericolosi; quando, invece, il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone, allora la limitazione si configura come vera e propria limitazione della libertà personale.

Certamente quando il divieto di spostamento è assoluto, come nella specie, in cui si prevede che il cittadino non può recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione, è indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale.

Nella fattispecie in questione, pertanto, deve essere disapplicata, in quanto costituzionalmente illegittima, la norma giuridica contenuta nel DPCM che impone la compilazione e la sottoscrizione personale dell’autocertificazione, e, il conseguente falso ideologico, ravvisato in tale atto, deve ritenersi necessariamente innocuo.

Invero, secondo la Suprema Corte di Cassazione “Non integra il reato di falso ideologico in atto pubblico per induzione in errore del pubblico ufficiale l’allegazione alla domanda di rinnovo di un provvedimento concessorio di un falso documento che non abbia spiegato alcun effetto, in quanto privo di valenza probatoria, sull’esito della procedura amministrativa attivata. (Fattispecie relativa a rinnovo di una concessione mineraria)” [Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 11952 del 22/01/2010 (dep. 26/03/2010)].

Pertanto, a parere del GIP del Tribunale di Reggio Emilia, la richiesta di decreto penale avanzata dal P.M., nel caso di specie, non può trovare accoglimento e si deve dichiarare, ai sensi degli articoli 129, 530, 459 co.3 c.p.p., il non luogo a procedere nei confronti di entrambi gli imputati per il reato di falso loro ascritto, perché il fatto non costituisce reato.

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di Avv. Giusy Latino

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