Come stiamo? Considerazioni sul vissuto del lockdown


Spunti di riflessione sul vissuto personale a partire dalla sfida rappresentata dalla pandemia
Come stiamo? Considerazioni sul vissuto del lockdown

Come stiamo?

Certo la seconda ondata c’era da aspettarsela. Veramente avevamo creduto di avercela fatta con un paio di mesi di canti sui balconi, smart-working e videochiamate con gli amici? No, non credo, eppure.

Eppure siamo tramortiti. Questa volta non si canta, non si attaccano rassicuranti “andràtuttobene” colorati alle finestre, nessun suggestivo filmato delle nostre meravigliose città vuote, fare il pane in casa non ci diverte più.

Come è diverso questo secondo lockdown da quello di questa primavera! E’ un lockdown autunnale, brumoso, di luci basse, giornate corte… Eppure… paradossalmente frenetico (a rischio lo shopping natalizio e il capodanno sulla neve!!!), indebitamente colorato, di rosso, giallo, arancione. Chi chiude? Chi rimane aperto? E a cascata, una serie di problematiche socioeconomiche che si intrecciano a quelle sanitarie e impattano una quotidianità stravolta.

Ma in questa girandola, noi dico, che forse non siamo in prima linea, forse non ci siamo (ancora) ammalati, forse non siamo personale sanitario, noi che guardiamo telegiornali e stiamo cercano faticosamente di imparare a vivere con la pandemia. Noi che non ci sentiamo eroi. Com’è, cos’è per noi, donne e uomini del ventunesimo secolo, la pandemia? Noi, come stiamo? Aldilà delle discussioni, delle polemiche, delle proteste, dei noncenècoviddi, noi, come stiamo dentro?

La pandemia è soprattutto un assedio. Ci sentiamo circondati, assediati, appunto. Non possiamo dirci “eh beati loro, lì sì che non hanno problemi!” “Se potessi, andrei in quel paese”. La pandemia non conosce paradisi, non lascia vie di fuga! E da cosa vorremmo fuggire se non dalla morte e dalla fragilità?! Ci sentiamo in qualche modo prigionieri, costretti nelle anguste pareti di casa (anguste anche per chi vive in un castello), imbavagliati da intollerabili mascherine che ci soffocano (esattamente come il virus che “toglie il respiro”!). Tutto questo ci esaspera, anche perché si protrae nel tempo e si sa, il gioco (ogni gioco, anche quello pandemico!) è bello finché dura poco! Cresce l’insofferenza, ci ribelliamo alla mascherina che viene impugnata come simbolo di limitazione, ma sappiamo in realtà a cosa ci stiamo ribellando?

Ascoltando un po’ fuori e un po’ dentro di me, accanto all’insofferenza e alla ribellione, sento un’altra voce, quella della delusione. No, non è (ancora) andato tutto bene! Non è bastato provare a crederci. Già questa primavera osservavamo un po’ increduli il nostro sistema (sanitario e non) essere messo in discussione, le nostre competenze medico-tecnologiche infrangersi contro lo scoglio Covid. In un attimo tutto quello che avevamo costruito in termini di “sicurezza” e “controllo” franava e lo stupore allibito di questa primavera, dopo il facile sollievo estivo, ha lasciato il posto alla frustrazione, la stanchezza. La pandemic fatigue, termine nuovo con il quale cominciamo a prendere confidenza! Siamo stanchi, stanchi di sentirci fragili, sconfitti.

Questa primavera abbiamo scoperto (?) che la connessione informatica ci consentiva di aggirare l’ostacolo del distanziamento. Abbiamo scoperto che ciò valeva non solo per il lavoro, ma anche per le relazioni amicali e affettive e abbiamo sentito in qualche modo di potercela fare. Ma in questi giorni crolla anche il mito informatico e ci accorgiamo che no, essere connessi non basta a farci sentire con l’altro. Forse lo sapevamo anche prima, ma in realtà non lo sapevamo veramente. I nostri strumenti, la nostra tecnologia ci delude, non solo perché messa in discussione dal virus, ma anche e soprattutto perché insufficiente a farci sentire vivi, cosa per la quale abbiamo invece bisogno di muoverci verso, esplorare, incontrare, abbracciare, accarezzare, abbiamo bisogno di presenza reciproca.

Sembra una delusione adolescenziale, e non lo dico per sminuirne la portata, anzi. E’ una fase evolutiva importante e può aiutarci a capire quello che stiamo vivendo e ad elaborarlo. La consapevolezza dolorosa della fragilità, il crollo dei miti infantili di onnipotenza produce smarrimento, disorientamento e angoscia.

Nasce un senso di scandalo, un sentimento di rabbia stupita, incredula angoscia difficile da definire, da raccontare. Siamo disorientati e angosciati, confusi. Vorremmo essere rassicurati, cerchiamo risposte… E la rabbia, la polemica, ahimè, possono essere una risposta. E così la negazione. Un mix veramente esplosivo, se consideriamo alcuni fatti di cronaca recente come, per esempio, le aggressioni alle ambulanze. Come ne veniamo fuori?

Mi piace pensare che la rabbia e la negazione, fisiologiche in adolescenza, possano, prima o poi e altrettanto fisiologicamente, lasciare il posto ad una sana fase depressiva di kleiniana memoria.  Fuggiamo la depressione come fosse un anatema. Non lo è.  La depressione, o meglio il momento depressivo è lo spazio aperto della domanda di senso, proprio laddove non riusciamo a trovare senso. E’ il tempo in cui ci si guarda dentro con occhi trasparenti, detersi dalle fantasie infantili di onnipotenza e dalle illusioni persecutorie. Qui, in questo tempo/spazio riflessivo potremmo scorgere un’energia nuova che muove verso il cambiamento. E’ necessario però starci un pochino, so-stare nel disagio, ascoltare tutte le sue voci, tollerarne il peso, foss’anche quello di un Natale senza mercatini e skypass, senza cene di famiglia e canti.

La pandemia, inutile oltre che banale dirlo, ci mette di fronte al nostro ineludibile limite, ed è con questa ineludibilità che dobbiamo e possiamo confrontarci. E’ da qui che possiamo ripartire, una ripartenza vera.

Coraggio, tra un po’ arriveranno i vaccini (come vivamente mi auguro); avremo trovato la cura e tra un altro po’ tutta questa tragedia sarà storia, facciamo che sia la nostra storia: non perdiamo l’occasione che questo momento ci offre, non sprechiamo l’energia depressiva.

 

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di Anna Esposito

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