Corte Costituzionale: obbligo di rispettare 60 gg.


Avvisi di accertamento: la Consulta ribadisce l’obbligo di rispettare il termine dei 60 giorni
Corte Costituzionale: obbligo di rispettare 60 gg.
Con ordinanza del 5 novembre 2013, la Corte di cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 37-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
L’articolo 37-bis del Dpr 600/1973 contiene la disciplina antielusiva secondo cui:
"1. Sono inopponibili all'amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.
2. L'amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'amministrazione."
In particolare, la disposizione in argomento stabilisce che:
"4. L'avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2."
Con l’avviso di accertamento, che trae origine da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, l’Agenzia delle Entrate aveva sottoposto a tassazione, tra il resto, la somma di 760.558,00 euro, dedotta quale perdita generata dalla cessione di crediti, in quanto operazione elusiva, ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973.
Con sentenza depositata il 12 luglio 2007, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in totale riforma della sentenza di Primo Grado, aveva annullato l’avviso di accertamento, giacché la sua notifica è avvenuta prima del decorso del termine di sessanta giorni dal ricevimento della lettera di chiarimenti richiesti al contribuente, in violazione dell’art. 37-bis, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973.
La sentenza di Appello era stata, quindi, impugnata dall’Agenzia delle Entrate, lamentando la violazione e falsa applicazione dell’articolo 37-bis del Dpr 600/1973.
Francamente, anche agli occhi di qualunque profano, non si capisce in base a quale motivo si potesse eccepire una particolare soggettiva differente interpretazione della previsione in argomento, la quale, come sopra riportato, appare essere (invero, una delle poche del nostro attuale sistema normativo tributario) molto chiara nel suo contenuto letterale:
"L'avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni".
D’altronde, ben difficilmente il Legislatore avrebbe potuto non imporre un obbligo di tempo per esperire il contraddittorio in una materia come quella dell’abuso del diritto, in cui appare particolarmente importante un confronto tra le ragioni economiche e di organizzazione che hanno convinto il contribuente a seguire una determinata strada e le potenziali eventuali eccezioni che l’Ufficio potrebbe voler manifestare al riguardo.
Ciononostante, in modo - spiace doverlo rimarcare - davvero inspiegabile, taluni Giudici di Legittimità hanno ritenuto di dover adire la Corte Costituzionale in proposito.
Nella sentenza si legge che:
"Ad avviso della rimettente, la questione sarebbe rilevante, in quanto l’avviso di accertamento impugnato nel giudizio principale è stato notificato cinquantaquattro giorni dopo il ricevimento della richiesta di chiarimenti, sicché dall’applicazione della norma censurata conseguirebbe la nullità dell’atto.
Quanto alla non manifesta infondatezza, la norma contrasterebbe in primo luogo con l’art. 3 Cost., per disparità di trattamento, perché è "distonica" rispetto al diritto vivente, costituito dalla costante giurisprudenza di legittimità secondo cui nel nostro ordinamento esiste un principio generale, ricavabile dall’art. 53 Cost., che vieta di conseguire indebiti vantaggi fiscali abusando del diritto.
Secondo la rimettente, solo l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, che ha natura speciale rispetto al generale divieto dell’abuso del diritto, prevede forme di contraddittorio preventivo con il contribuente da osservare a pena di nullità, sicché ne deriva una irragionevole disparità di trattamento con le fattispecie antielusive che non sono riconducibili alla norma denunciata, nonché con altre disposizioni che consentono l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di negozi elusivi, come l’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), in relazione alle quali la legge non prevede analoga sanzione.
L’irragionevolezza della sanzione di nullità sarebbe resa evidente anche dal confronto con la natura officiosa della rilevabilità delle fattispecie elusive ad opera del giudice, che implica l’impossibilità di instaurare un contraddittorio preventivo tra l’amministrazione finanziaria e il contribuente.
La norma violerebbe, in secondo luogo, il principio che impone a tutti l’adempimento delle obbligazioni tributarie, ai sensi dell’art. 53 Cost., giacché fa dipendere la nullità dell’avviso di accertamento da un mero vizio di forma del contraddittorio, il quale deve avere invece carattere di effettività sostanziale e non formalistico, come si desume dall’applicazione, nel ben più delicato campo processuale, della regola, riconosciuta dalla giurisprudenza, in base alla quale la nullità delle notificazioni degli atti fiscali è sanata per raggiungimento dello scopo, se il contribuente impugna correttamente l’atto, ai sensi degli artt. 156, terzo comma, del codice di procedura civile, e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973.
La rimettente conclude rilevando che la norma non sembra suscettibile di interpretazioni adeguatrici, attesa la perentoria formulazione della comminatoria di nullità, diretta proprio a protezione delle forme del preventivo contraddittorio" (e meno male - N.d.R.).
Tale anomalo comportamento della Cassazione aveva fatto immediatamente "gridare vittoria" all’Agenzia delle Entrate, la quale, tramite la propria rivista specializzata, era giunta a esprimersi in termini quali:
"La Corte di cassazione dimostra di condividere il motivo di ricorso dell’Amministrazione".
"La Corte di cassazione dà per scontato che non vi sia un obbligo di contraddittorio preventivo in caso di contestazione di abuso del diritto."
"La Cassazione ratifica in maniera netta la mancanza di un diritto di contraddittorio preventivo nel caso di fattispecie di abuso di diritto."
Vedere:
http://www.fiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/parola-alla-consulta-sull-invaliditadell-accertamento-senza-confronto
Peccato (per l’Ufficio e per la Cassazione) che il Giudice delle Leggi la pensi in maniera diversa.
"La questione sollevata in relazione all’art. 3 Cost. è infondata.
Il divieto di abuso del diritto in materia tributaria deve considerarsi operante nel nostro ordinamento fin da prima dell’entrata in vigore dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, con la conseguenza che quest’ultima disposizione, introdotta dall’art. 7, comma 1, del decreto legislativo 8 ottobre 1997, n. 358 (Riordino delle imposte sui redditi applicabili alle operazioni di cessione e conferimento di aziende, fusione, scissione e permuta di partecipazioni), costituirebbe una norma speciale, con la quale il legislatore ha applicato la clausola generale antielusiva nel settore delle imposte sui redditi.
La sussistenza della violazione del principio di eguaglianza, nei termini prospettati dal giudice a quo, presuppone che, per le fattispecie elusive non riconducibili all’art. 37-bis e soggette al solo divieto generale di abuso del diritto, non operi la stessa sanzione della nullità dell’atto impositivo che risulti affetto dallo stesso vizio.
Tuttavia, non solo l’ordinanza di rimessione non offre alcuna particolare motivazione sul punto, limitandosi ad affermare che per le fattispecie elusive non disciplinate dall’art. 37-bis non operano regole analoghe, ma l’ipotesi dalla quale muove è contraddetta dalla stessa giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l’amministrazione finanziaria che intenda contestare fattispecie elusive, anche se non riconducibili alle ipotesi contemplate dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, è tenuta, a pena di nullità dell’atto impositivo, a richiedere chiarimenti al contribuente e a osservare il termine dilatorio di sessanta giorni, prima di emettere l’avviso di accertamento, il quale dovrà essere specificamente motivato anche con riguardo alle osservazioni, ai chiarimenti e alle giustificazioni, eventualmente forniti dal contribuente (Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenze 14 gennaio 2015, n. 406 e 5 dicembre 2014, n. 25759).
In altri termini, il tertium comparationis indicato dal giudice a quo non corrisponde a un principio generale, rispetto al quale la disciplina denunciata rivesta un carattere ingiustificatamente derogatorio, come è invece necessario ai fini del giudizio sulla violazione del principio di eguaglianza (sentenze n. 43 del 1989 e n. 1064 del 1988).
Nemmeno l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, in tema di applicazione dell’imposta di registro, secondo cui «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente», costituisce un idoneo tertium comparationis. Secondo la rimettente, anche tale norma avrebbe natura antielusiva, ma la sua violazione non comporta una sanzione analoga a quella stabilita dalla norma denunciata.
Senza entrare nel merito della qualificazione della norma, è sufficiente osservare che la mancanza dell’espressa previsione, in essa, del contraddittorio anticipato non sarebbe comunque d’ostacolo all’applicazione del principio generale di partecipazione del contribuente al procedimento, di cui si è detto. Sicché nemmeno questo termine di riferimento assunto dalla rimettente è idoneo a dimostrare la denunciata disparità di trattamento."
Riguardo all’eccezione di incostituzionalità concernente l’art. 53 della Costituzione, la Consulta afferma che:
"La nullità dell’avviso di accertamento per inosservanza del termine dilatorio prescritto dalla norma denunciata è la conseguenza, come si è detto, di un vizio del procedimento, consistente nel fatto di non essere stato messo a disposizione del contribuente l’intero lasso di tempo previsto dalla legge a garanzia della sua facoltà di partecipare al procedimento stesso presentando osservazioni e chiarimenti. Il rispetto del termine dilatorio assolve anche allo scopo di consentire che l’avviso di accertamento sia «specificamente motivato» dall’ufficio tributario, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente, come prescrive, sempre a pena di nullità, il comma 5 dello stesso art. 37-bis.
Dalla considerazione unitaria delle prescrizioni dei commi 4 e 5, che scandiscono in modo rigoroso il procedimento preordinato all’assunzione dell’avviso di accertamento della fattispecie elusiva, emerge in modo ancora più evidente la funzione di tutela effettiva del contraddittorio propria del termine in questione. La sanzione della nullità dell’atto conclusivo del procedimento assunto in violazione del termine stesso trova dunque ragione in una divergenza dal modello normativo che, lungi dall’essere qualificabile come meramente formale o innocua, o come di lieve entità, è invece di particolare gravità, in considerazione della funzione di tutela dei diritti del contribuente della previsione presidiata dalla sanzione della nullità, e del fatto che la violazione del termine da essa previsto a garanzia dell’effettività del contraddittorio procedimentale impedisce il pieno svolgersi di tale funzione.
La sanzione prevista dalla norma censurata non è dunque posta a presidio di un mero requisito di forma del procedimento, estraneo alla sostanza del contraddittorio, come assume la rimettente, ma costituisce invece strumento efficace ed adeguato di garanzia dell’effettività del contraddittorio stesso, eliminando in radice l’avviso di accertamento emanato prematuramente. La necessità che al contribuente sia consentito di partecipare al procedimento e la ragionevolezza della sanzione in caso di violazione del termine stabilito per garantire l’effettività di tale partecipazione, sono ancora più evidenti se si considerano le peculiarità dell’accertamento delle fattispecie elusive e il ruolo decisivo che in esso possono svolgere gli elementi forniti dal contribuente, in particolare in vista della valutazione che l’amministrazione è chiamata a compiere dell’esistenza di valide ragioni economiche sottese alle operazioni esaminate." (Elemento, molto immodestamente, da noi appunto evidenziato all’inizio di questo commento).
Conclude, la Consulta:
"È poi evidente che, ai fini della decisione della questione in esame, non può presentare alcun rilievo la circostanza, richiamata nell’ordinanza di rimessione a sostegno della pretesa irragionevolezza della norma censurata, che nel caso oggetto del giudizio a quo l’avviso fosse stato notificato poco prima dello spirare del termine dilatorio di sessanta giorni. Così come non è pertinente il richiamo, operato dalla rimettente, all’interpretazione giurisprudenziale della regola sulla sanatoria della nullità della notificazione degli atti, sia processuali che impositivi, per raggiungimento dello scopo. Il giudice a quo censura la norma in quanto prescrive la nullità dell’atto per violazione del termine dilatorio, non già perché il termine non sarebbe congruo o perché non sarebbe prevista la sanatoria della nullità così prodotta, sicché entrambi i menzionati argomenti sono da ritenere estranei ai termini della questione di legittimità costituzionale come sollevata.
La questione è, quindi, infondata anche in riferimento all’art. 53 Cost."
Da tali motivazioni consegue il dispositivo della sentenza:
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Articolo del:


di Dr. Paolo Soro

L'autore dell'articolo non è nella tua città?

Cerca un professionista con le stesse caratteristiche a te più vicino.

Cerca nella tua città o in una città di tuo interesse