Decreto Balduzzi: tra tradizione ed innovazione


Decreto Balduzzi sul sistema della responsabilità civile del medico: tra tradizione ed innovazione
Decreto Balduzzi: tra tradizione ed innovazione
La responsabilità civile e penale del professionista sanitario, rappresenta una delle tematiche più controverse ed affascinanti del panorama giuridico degli ultimi anni.
Con particolare riguardo ai profili civilistici della questione, è bene premettere che le motivazioni di tanta attenzione da parte di dottrina e giurisprudenza risiedono nell’esigenza, sentita soprattutto a livello giurisprudenziale, di inquadrare dogmaticamente la responsabilità del medico e della struttura sanitaria, al fine di applicare il regime giuridico di riferimento. Pertanto non può di certo parlarsi di disquisizione meramente teorica, alla luce dei fondamentali risvolti pratici che l’inquadramento della natura giuridica ha per il diritto vivente.
Invero, è opportuno sottolineare che, prima del recente intervento normativo di cui si dirà, nessuna disposizione normativa si è mai preoccupata di indicare il genus di responsabilità civile cui ricondurre la responsabilità del professionista sanitario, salva la generalissima disciplina codicistica in tema di contratto di prestazione d’opera intellettuale di cui agli artt. 2229 e seguenti del codice civile, che pacificamente include l’esercizio di professioni sanitarie.
Pertanto, si è lasciato un ampio margine di intervento a Tribunali e Corte di Cassazione, la cui fervida e crescente attenzione al tema ha contribuito a delineare i contorni, sempre sfumati e mai di immediata percezione, di una disciplina priva di un addentellato normativo, fino all’intervento del legislatore con la Legge 189/2012 cd. Decreto Balduzzi che induce l’interprete e rivedere il diritto vivente.
Innanzitutto, come anticipato, versiamo nel settore della responsabilità professionale per la prestazione di una opera intellettuale che segue le generali regole di diligenza, prudenza e perizia nonché il rispetto delle leges artes della professione medica. Nello specifico si tratta di leges dell’ars medica volte a perimetrare l’ambito del cd. rischio consentito, cioè l’ambito di liceità dell’operato del professionista.
Trattasi di diligenza media esigibile dal professionista medio, o cd.diligenza qualificata, come è dato desumere dall’art. 1176, comma 2 c.c., che impronta l’intera disciplina delle obbligazioni ad un canone di normalità, entro un apprezzabile sacrificio per il debitore. Professionista è chi esercita una prestazione per la quale è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali e gode di una limitazione della responsabilità per i soli casi di dolo e colpa grave,qualora lo stesso professionista si trovi a cospetto di attività complesse che richiedono la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità. Invero, la giurisprudenza, onde evitare posizioni di dubbio privilegio per determinate categorie di soggetti obbligati (i professionisti intellettuali), ha interpretato la norma nel senso di riservarle un ambito di applicazione ristretto al solo segmento della perizia, escludendo, og’nimodo, l’applicazione di tale disposizione alle ipotesi di violazione delle generali regole prudenziali. Ciò comporta che il professionista sanitario, risponderà sempre per la violazione di regole di diligenza e prudenza, intese come obbligo di cura, cautela ed attenzione nell’esercizio della prestazione, mentre per la violazione della sola regola di perizia, quale particolare competenza e conoscenza tecnica maturata a seguito di studi e specializzazioni di settore, sarà responsabile per i soli casi di dolo o colpa grave, escluse le ipotesi di colpa lieve.
Nel caso delle professioni sanitarie, per colpa lieve si intende la omissione di diligenza o di negligenza, dovuta all'approntamento non conforme al caso concreto, e che in conseguenza di ciò, ha causato un danno lieve o ingente nella esecuzione dell'intervento operatorio o nella diagnosi e terapia medica del caso trattato. Mentre, per colpa grave si intende il compimento da parte del medico di un errore grossolano, dovuto specialmente alla violazione delle regole fondamentali e dalla mancata adozione degli strumenti necessari, contravvenendo alle conoscenze che rientrano nel patrimonio del medico, conformandone le scelte in ordine alla tipologia e metodo d'intervento; al trattamento diagnostico e/o farmacologico; all’adozione di rimedi postoperatori per evitare complicazioni. La perizia, in sostanza, impone la conoscenza di tutti i rimedi che non siano ignoti alla scienza e alla pratica della medicina.
Quanto detto non trova particolari resistenze nella giurisprudenza di legittimità ancorata al dato normativo e maggiormente preoccupata ad individuare i caratteri della colpa medica, i criteri di accertamento che presiedono l’indagine sul nesso di causalità tra la condotta del medico e l’evento dannoso, i comportamenti censurabili ed infine, non per importanza, inquadrare la natura giuridica della responsabilità del professionista, sub species del professionista esercente professione medica, al fine di applicare il regime di cui all’art. 1218 c.c. previsto per la responsabilità contrattuale o il diverso regime di cui all’art.2043 c.c. prescritto per la responsabilità extracontrattuale. Delle due l’una oppure la questione presenta confini meno netti?
Innanzitutto va distinta la responsabilità della struttura sanitaria cui il paziente si rivolge, dalla responsabilità del personale medico e paramedico e ciò in quanto nel primo caso rilievo giuridico è dato all’atto di accettazione da parte del paziente ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale. L’accettazione sarebbe idonea, secondo l’orientamento tradizionale della giurisprudenza, sul punto ormai granitica, a concludere un contratto, nel senso di cui all’art.1321 c.c., tra il paziente e l’ente ospedaliero pubblico o struttura sanitaria privata. Si tende a ricondurre tale contratto nell’alveo della atipicità, per assenza di disciplina codicistica, ritenendolo un "contratto atipico a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione di pagamento del corrispettivo (al Servizio sanitario nazionale), insorgono a carico della casa di cura, accanto a quelli latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione di personale medico ausiliario, personale paramedico e di apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze" (Cassazione Civile Sezioni Unite n.577/2008).
Dunque, trattasi di un complesso concetto di assistenza sanitaria, comprensiva altresì di servizi alberghieri oltre che strettamente sanitari.
L’aurea contrattuale di cui siffatto rapporto è intrisa rende applicabile tout court la disciplina prevista dall’art. 1218 c.c. con tutti i precipitati applicativi che ne derivano in punto di onere della prova, prescrizione ed elementi costitutivi della responsabilità. In tal modo la responsabilità della struttura sanitaria per fatto proprio, si pensi al cd. danno da disservizio e/o disorganizzazione, nonché per fatto altrui, cioè dei propri ausiliari ex art.1228 c.c. diviene figura autonoma rispetto alla responsabilità del medico dalla quale prescinde senza forme irragionevoli di sovrapposizione ed appiattimento.
Possiamo cosi schematizzare la responsabilità della struttura sanitaria, pubblica e privata, sulla cui equivalenza non è piu dato discutere:
- se il paziente si rivolge direttamente alla struttura in cui il medico esercita il rapporto è contrattuale, basandosi sull’accettazione fornita dal paziente stesso: la responsabilità per i danni cagionati al paziente-danneggiato avrà natura contrattuale con applicazione del regime giuridico ex art.1218 c.c.
- se il paziente si rivolge direttamente al medico di fiducia il quale dirige lo stesso paziente verso una determinata clinica o struttura ospedaliera, quest’ultima sarà responsabile ex art.1218 c.c. per eventuali danni da disorganizzazione per violazione degli obblighi di predisposizione ed organizzazione del personale e degli strumenti necessari, salva una responsabilità ex art.1228 c.c. per il fatto degli ausiliari, cioè personale medico e paramedico intervenuto. Tale forma di responsabilità di cui all’art.1228 c.c. riposa sul principio cuius commoda eius et incommoda, per il rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’esercizio di una determinata attività.
Controversa è, invece, la natura del rapporto tra il medico ed il paziente, quando quest’ultimo si sia rivolto solo ed esclusivamente al primo, senza contattare la casa di cura o l’ente ospedaliero. Sul punto sono state due le principali impostazioni giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento trattasi di responsabilità extracontrattuale sussistendo la violazione del generico dovere del neminem laedere da parte del sanitario a danno del quisque de populo. Dunque estraneità ed assenza di vincolo obbligazionario facevano propendere per l’inquadramento della responsabilità de quo nell’art.2043 c.c. con inversione dell’onere della prova a carico del danneggiato. A prescindere dall’indubbio regime di favor per il medico, questa impostazione prestava il fianco ad obiezioni difficilmente superabili, perché, di certo, il paziente ed il sanitario sono avvinti da un rapporto assai diverso dal legame tra estranei, dal momento che il medico non agisce senza alcun titolo nella sfera giuridica del paziente alla stregua di un quisque de populo. Inoltre, aderire a questa impostazione comportava un aggravamento sul piano probatorio per il paziente, oberato cosi dall’onus probandi di tutti gli elementi di cui all’art.2043 c.c.: condotta, elemento psicologico, evento dannoso e nesso di causalità, materiale e giuridico nel senso di cui all’art.1223 c.c. applicabile anche alla responsabilità aquiliana per il richiamo espresso compiuto dall’art. 2056 c.c.
Dalla demolizione delle asserzioni della precedente teoria, la giurisprudenza di legittimità ha costruito il regime di responsabilità civile del sanitario, aprendo il varco alla natura contrattuale della stessa, ancora oggi riconosciuta pienamente dalle Corti di Merito e dalla stessa Suprema Corte. Invero la fervida immaginazione dei giudici della nomofilachia ha creato ex novo la teoria del contatto sociale, per descrivere quel particolare rapporto che lega il medico al paziente privo di un qualsivoglia contratto, nel senso ex art.1321 c.c.
Il contatto sociale è un rapporto qualificato, la cui ratio essendi va riscontrata nel concetto di rapporto contrattuale di fatto, coniato dalla dottrina classica tedesca, fonte di obbligazioni di protezione per soggetti che si pongono in un particolare contatto (cd. rapporto qualificato) con il prestatore. In pratica un tertium genus a metà tra contratto ed illecito, attratto, per l’opzione ermeneutica preferibile, nell’alveo dei rapporti contrattuali.
Orbene, precipitato applicativo di una simile impostazione è l’applicazione dell’intera disciplina codicistica prescritta in materia di obbligazioni e contratti, trattandosi di un rapporto modellato sul contratto d’opera intellettuale potenziato da obblighi integrativi nascenti dalla regola di buona fede ex art.1175 c.c. e 1375 c.c.
Ne deriva che la ripartizione dell’onere della prova segue i criteri dettati dalla Corte di Cassazione con l’ormai celebre sentenza n. 13533/2001 che ha demolito il dogma della distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato, sancendo un’omogeneità del criterio di imputazione e di onere della prova ex art.2697 c.c.
Prima di questa pronuncia era ius receptum la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato: nel primo caso, cui si riferiva l’obbligazione del professionista sanitario, il debitore si impegna a tenere una condotta diligente a prescindere dal raggiungimento del risultato anelato; nel secondo caso la prestazione inerisce al risultato voluto ed il mancato raggiungimento integra ex se inadempimento contrattuale. Sul piano probatorio è chiaro che mentre nel primo caso andrà esente da censure la condotta diligente (non colpevole) del sanitario-debitore che ha aderito al canone di diligenza media esigibile, la cui inosservanza andrà provata dal creditore-paziente; nel secondo caso sarà il debitore-medico a dover provare l’impossibilità di realizzazione del risultato per cause a sé non imputabili.
Il superamento di questa tradizionale divisione dottrinaria ha garantito un rovesciamento della situazione probatoria perché il paziente-creditore prova il titolo (il contatto sociale) e allega l’inadempimento (aggravamento patologia o insorgenza nuova patologia); mentre il medico-debitore prova, secondo il principio per cui negativa non sunt probanda, il fatto positivo dell’adempimento oppure l’irrilevanza causale della propria condotta rispetto all’esito infausto, alla luce anche di eventuali decorsi causali atipici. Inoltre in una piu’ recente pronuncia la Corte di legittimità ha chiarito che l’onere di allegazione del paziente non può essere generico, bensì specifico perché deve introdurre un inadempimento qualificato da parte del medico, al fine di consentire allo stesso l’esercizio di una puntuale difesa in giudizio in ossequio al principio sancito costituzionalmente dagli artt.24 e 111 Costituzione. Alla luce di tale pronuncia, n.577/2008, alla quale va il merito di aver sancito finalmente l’autonomia concettuale e giuridica della causalità civile rispetto alla causalità penale, forgiando la regola probatoria della preponderanza dell’evidenza, spetta al paziente-creditore provare le voci di danno di cui chiede ristoro, quali conseguenze immediate e dirette dell’evento prodotto dall’errore e/o ritardo diagnostico, terapeutico o farmacologico ex art.1223 c.c.
Dunque, è chiaro come accogliere l’una o l’altra tesi comporti uno stravolgimento in ordine al regime giuridico da applicare al caso, con conseguente aggravamento o alleggerimento delle posizioni processuali: emerge, ictu oculi, il favor per il paziente dell’opzione ermeneutica della responsabilità contrattuale. Si pensi anche al diverso termine prescrizionale, che nel caso della responsabilità da contratto sarà decennale, mentre in caso di responsabilità aquiliana sarà quinquennale.
In un quadro già profondamente frammentario, tra bizantinismi della dottrina e continui interventi della giurisprudenza, ha ben pensato di intervenire il legislatore con la L. 189/2012 cd. Decreto Balduzzi che sembrerebbe aver preso posizione in ordine alla controversa natura giuridica della responsabilità del sanitario.
L’art. 3 della legge "Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie" prevede al comma 1 che "l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo".
All’indomani della entrata in vigore della citata legge si è posto il problema di valutare l’impatto dell’art. 3 sul delineato sistema della responsabilità in ambito sanitario e sulla responsabilità del medico in particolare. Ci si è chiesti, in sostanza, se il richiamo espresso fatto all’art.2043 c.c. sia sintomatico di una precisa volontà del legislatore oppure un mero richiamo al generale sistema della responsabilità civile privo di portata innovativa. Se cosi non fosse andrebbero rivisti tutti i corollari applicativi cui il diritto vivente era giunto.
Invero, un intervento normativo è stato a gran voce richiesto dagli operatori del diritto, soprattutto perché i casi di malpractice medica ed il suo regime incerto, hanno riempito le aule dei tribunali ormai oberati dalle continue e spesso, spropositate, richieste di risarcimento dei danni con aggravi economici non solo per le compagnie assicuratrici ma anche per le aziende ospedaliere. Inoltre autorevoli interpreti hanno sottolineato come il continuo esporre i sanitari a pretese risarcitorie abbia incrementato il fenomeno della cd. medicina difensiva che consiste nella pratica di misure terapeutiche condotte principalmente, non per assicurare la salute del paziente, ma come garanzia delle responsabilità medico legali seguenti alle cure mediche prestate.
In pratica, le eccessive esigenze di tutela per il paziente manifestate negli ultimi anni hanno prodotto un effetto uguale e contrario che danneggia proprio i pazienti con violazione del diritto alla salute garantito dall’art. 32 Costituzione.
L’odierno dibattito attiene all’inciso "In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile". Quale interpretazione fornire alla norma?
Sul punto si sono formati due orientamenti contrapposti: da un lato chi afferma la portata innovativa della norma che ha voluto dar voce alle istanze maggiormente garantiste per il medico, particolarmente sentite nella comunità scientifica; dall’altro chi, invece, resta ancorato alla tradizionale impostazione.
Innovazione o tradizione sono i due poli estremi dell’attuale dialettica in materia di responsabilità del professionista sanitario: aprirsi alla volontà espressa del legislatore e, dunque, riconoscere una responsabilità di tipo extracontrattuale con un favor per il sanitario in punto di prova e prescrizione; o chiudersi al dettato normativo ed interpretare lo stesso secondo canoni ermeneutici ormai divenuti ius receptum?
Secondo alcuni tribunali, il richiamo esplicito alla disciplina della responsabilità risarcitoria da fatto illecito (art. 2043) sarebbe una sorta di "atecnico" rinvio alla responsabilità risarcitoria dell’esercente la professione sanitaria, mentre secondo altri nella previsione in esame vi sarebbe una indicazione legislativa volta a chiarire che, in assenza di un contratto concluso con il paziente, la responsabilità del medico non andrebbe ricondotta nell’alveo della responsabilità da inadempimento/inesatto adempimento, bensì in quello della responsabilità da fatto illecito.
Pertanto, parte della giurisprudenza di merito (Tribunale di Rovereto del 29/12/2013) ha ribadito che nessuna portata innovatrice deriverebbe dalla legge Balduzzi in merito alla responsabilità civile del medico in quanto il richiamo all’art. 2043 c.c. contenuto nell’art. 3 andrebbe riferito solo al giudice penale per il caso di esercizio dell’azione civile in sede penale, mentre la responsabilità civile del medico andrebbe comunque ricondotta al disposto dell’art. 1218 c.c. in caso di inadempimento e/o inesatto adempimento dell’obbligazione "legale" gravante anche sul singolo operatore sanitario e che troverebbe fonte nella legge istitutiva del S.S.N. (L. n. 833 del 1978). Mentre, altra parte della giurisprudenza di merito (Tribunale di Torino del 26/2/2013) sostiene l’indirizzo opposto, smentendo sia la teoria del contatto sociale sia l’inquadramento nella disciplina della responsabilità contrattuale e ciò per varie argomentazioni, in parte accolte anche da alcune pronunce successive della Suprema Corte di Cassazione.
Infatti, secondo tale impostazione, l’obbligazione del medico non ha fonte legale perché scaturita dalla legge istitutiva del S.S.N. dalla quale, al piu’ potrebbe farsi discendere le obbligazioni gravanti sulla struttura sanitaria inserite nel variegato servizio sanitario e non già obbligazioni gravanti sul singolo medico. A tal fine è opportuno ricordare che si cade in errore se si sovrappone la responsabilità del medico a quella della struttura. La Corte di Cassazione ha precisato, per chiarezza, che l’art. 3 Decreto Balduzzi non si riferisce ad ogni ipotesi di responsabilità del medico ed altri esercenti professioni sanitarie, dovendosi necessariamente distinguere l’ipotesi in cui il paziente conclude un contratto con un professionista dall’ipotesi in cui il paziente si rivolge solo alla struttura.
In caso di contratto tra medico e paziente, nessun riflesso innovativo può avere la nuova disposizione del 2012, perché in applicazione dei principi generali dettati dal codice civile siamo in presenza, senza alcun dubbio, di un’ipotesi di responsabilità contrattuale da inadempimento o inesatto adempimento ex art.1218 c.c.
In caso di mancanza di rapporto contrattuale tra medico e paziente, secondo questa interpretazione progressista, non è dato aderire alla ficio iuris del contatto sociale, mancando un qualsivoglia legale contrattuale o rapporto di fatto qualificato. Se il paziente si rivolge in via esclusiva alla struttura, senza stipulare un contratto col medico, la responsabilità della struttura resterà di tipo contrattuale (per il ragionamento inizialmente elaborato), mentre la responsabilità del medico non potrà che essere da fatto illecito ex art. 2043 c.c. non potendosi inquadrare il rapporto di fatto nel contratto di prestazione d’opera professionale. In siffatta circostanza infatti il sanitario agisce in virtu’ del rapporto contrattuale di lavoro che lo lega alla struttura sanitaria pubblica o privata, e non in virtu’ di un titolo negoziale. Ricondurre in tali casi la responsabilità del medico nell’alveo dell’art. 2043 c.c. favorirebbe la cd. alleanza terapeutica tra medico e paziente, superando gli ostacoli della medicina difensiva e alleggerendo l’onus probandi del medico.
In conclusione, appare a chi scrive opportuno circoscrivere l’ambito di applicazione del citato art. 3 ai soli casi di mancanza di contratto di prestazione d’opera tra il medico e il paziente perché il paziente si è rivolto solo alla struttura e il sanitario ha eseguito la prestazione in virtu’ del solo rapporto di lavoro che lo lega alla struttura sanitaria.
Potrebbe così parlarsi di un doppio binario di responsabilità a cui l’interprete in sede di giudizio dovrà riservare una profonda indagine, al fine di individuare il corretto regime giuridico da applicare in punto di prova e prescrizione per evitare confusioni ed irragionevoli disparità. A ciò va aggiunto che la giurisprudenza di legittimità si sta preoccupando, negli ultimi anni, di sfatare il mito della triade delle voci di danno non patrimoniale risarcibile: danno biologico, danno esistenziale e danno morale. Tale tendenza va interpretata in un’ottica di favore per il danneggiante- debitore per stigmatizzare fenomeni di duplicazioni delle voci di danno e di ingiusta locupletazione a vantaggio del creditore-danneggiante per la funzione riparatoria e non sanzionatoria dello strumento risarcitorio.

De iure condendo sarebbe, invero, auspicabile un intervento chiarificatore da parte del legislatore, in mancanza del quale non resta che affidarci alla continua elaborazione giurisprudenziale, con la speranza che il conflitto interpretativo possa dirsi definitivamente sopito.

Articolo del:


di Avv. Giovanni Barile

L'autore dell'articolo non è nella tua città?

Cerca un professionista con le stesse caratteristiche a te più vicino.

Cerca nella tua città o in una città di tuo interesse