La funzione "conciliativa" dell'avvocato
Arbitrato, Mediazione e Negoziazione assistita. Il ruolo dell'avvocato nei metodi alternativi di risoluzione delle controversie
Ad oggi nel nostro ordinamento esistono almeno tre metodi alternativi di risoluzione delle controversie: l'arbitrato, rituale ed irrituale, la mediazione obbligatoria e, in ultimo, la negoziazione assistita obbligatoria e facoltativa.
Il primo è disciplinato dagli articoli 806 e seguenti del cpc; il secondo dal d. lgs. n. 28 del 2010, così come modificato dal decreto del fare - al fine di superare l'illegittimità costituzionale dichiarata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 272 del 6 dicembre 2012 - che ha reintrodotto l'obbligatorietà e ne ha incluso la funzione transitoria e sperimentale, e dalla recente "manovrina" (d.l. n. 50/2017 convertito con legge n. 96/2017) che ha eliminato il carattere temporaneo dell'istituto; ed il terzo dal d.l. 132 del 2014 (convertito con legge n. 162 del 2014).
Eccezion fatta per l'arbitrato, da sempre disciplinato dal codice di rito, gli altri interventi normativi, oltre ad introdurre i casi di obbligatorietà della mediazione e della negoziazione e la condizione di procedibilità della domanda giudiziale, non hanno fatto altro che confermare quella che deve essere una prerogativa dell'attività dell'avvocato, ovvero la funzione conciliativa.
Invero, l’avvocato per sua natura, e nella qualità di esperto del diritto e del sistema legislativo vigente, può e deve essere considerato come il professionista più adatto a ricoprire il ruolo di conciliatore in una controversia, qualora il ricorso alla sede giudiziaria può essere chiaramente evitato.
L’assistito, in tal modo, troverà la soluzione alla sua problematica con notevole risparmio di tempo, non dovendo rispettare termini perentori, ed economico, sia per quanto riguarda le spese di giustizia che per ciò che concerne le competenze professionali.
Difatti, l’avvocato dotato di una buona dose di onestà intellettuale e di buon senso, dopo una prima e accurata disamina della controversia portata alla sua attenzione, saprà senz’altro indirizzare il proprio cliente sulla strada della conciliazione, a prescindere dall’obbligatorietà e dalle questioni di procedibilità della domanda.
Vi è da dire, tuttavia, che non tutti i legali, purtroppo, possiedono attitudini naturali orientate verso la cosiddetta "giustizia alternativa".
Ad ogni modo, l’avvocato, nella procedura conciliativa, si trova a vestire non solo la consueta veste di garante del proprio cliente bensì anche quella inconsueta di soggetto terzo ed imparziale, posto che la conciliazione non è un processo giudiziale dal quale escono un vincitore e un vinto, dove l’avvocato è chiamato a difendere, nell’accezione più tecnica della parola, la parte assistita.
Già Piero Calamandrei, in tempi non sospetti, aveva sottolineato l’importanza della funzione conciliativa del difensore nelle pagine del suo celeberrimo "Elogio dei giudici scritto da un avvocato" nel quale sosteneva che "C’è un momento in cui l’avvocato civilista deve guardare la verità in faccia, con occhio spassionato di giudice: quello in cui, chiamato dal cliente a consigliarlo sulla opportunità di promuovere una lite, ha il dovere di esaminare imparzialmente, tenendo conto delle ragioni dell’eventuale avversario, se possa giovare alla giustizia l’opera di parzialità che gli è richiesta. Così l’avvocato, in materia civile, dev’essere il giudice istruttore dei suoi clienti: la cui utilità sociale è tanto più grande, quanto maggiore è il numero di sentenze di non luogo a procedere, che si pronunziano nel suo studio."
Ed ancora: "L’opera più preziosa degli avvocati civilisti è quella che essi svolgono prima del processo, stroncando con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio, e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria."
Ergo, ci si chiede se gli interventi normativi volti ad introdurre i metodi alternativi di risoluzione delle controversie, possano davvero giovare ad una giustizia già di per sé lenta e farraginosa, o avranno il solo effetto di allungare ancor di più il "parossismo morboso" di un processo civile attraverso l’introduzione di termini perentori da rispettare, casi di obbligatorietà, condizioni di procedibilità della domanda e, in ultimo, ulteriori costi.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Il primo è disciplinato dagli articoli 806 e seguenti del cpc; il secondo dal d. lgs. n. 28 del 2010, così come modificato dal decreto del fare - al fine di superare l'illegittimità costituzionale dichiarata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 272 del 6 dicembre 2012 - che ha reintrodotto l'obbligatorietà e ne ha incluso la funzione transitoria e sperimentale, e dalla recente "manovrina" (d.l. n. 50/2017 convertito con legge n. 96/2017) che ha eliminato il carattere temporaneo dell'istituto; ed il terzo dal d.l. 132 del 2014 (convertito con legge n. 162 del 2014).
Eccezion fatta per l'arbitrato, da sempre disciplinato dal codice di rito, gli altri interventi normativi, oltre ad introdurre i casi di obbligatorietà della mediazione e della negoziazione e la condizione di procedibilità della domanda giudiziale, non hanno fatto altro che confermare quella che deve essere una prerogativa dell'attività dell'avvocato, ovvero la funzione conciliativa.
Invero, l’avvocato per sua natura, e nella qualità di esperto del diritto e del sistema legislativo vigente, può e deve essere considerato come il professionista più adatto a ricoprire il ruolo di conciliatore in una controversia, qualora il ricorso alla sede giudiziaria può essere chiaramente evitato.
L’assistito, in tal modo, troverà la soluzione alla sua problematica con notevole risparmio di tempo, non dovendo rispettare termini perentori, ed economico, sia per quanto riguarda le spese di giustizia che per ciò che concerne le competenze professionali.
Difatti, l’avvocato dotato di una buona dose di onestà intellettuale e di buon senso, dopo una prima e accurata disamina della controversia portata alla sua attenzione, saprà senz’altro indirizzare il proprio cliente sulla strada della conciliazione, a prescindere dall’obbligatorietà e dalle questioni di procedibilità della domanda.
Vi è da dire, tuttavia, che non tutti i legali, purtroppo, possiedono attitudini naturali orientate verso la cosiddetta "giustizia alternativa".
Ad ogni modo, l’avvocato, nella procedura conciliativa, si trova a vestire non solo la consueta veste di garante del proprio cliente bensì anche quella inconsueta di soggetto terzo ed imparziale, posto che la conciliazione non è un processo giudiziale dal quale escono un vincitore e un vinto, dove l’avvocato è chiamato a difendere, nell’accezione più tecnica della parola, la parte assistita.
Già Piero Calamandrei, in tempi non sospetti, aveva sottolineato l’importanza della funzione conciliativa del difensore nelle pagine del suo celeberrimo "Elogio dei giudici scritto da un avvocato" nel quale sosteneva che "C’è un momento in cui l’avvocato civilista deve guardare la verità in faccia, con occhio spassionato di giudice: quello in cui, chiamato dal cliente a consigliarlo sulla opportunità di promuovere una lite, ha il dovere di esaminare imparzialmente, tenendo conto delle ragioni dell’eventuale avversario, se possa giovare alla giustizia l’opera di parzialità che gli è richiesta. Così l’avvocato, in materia civile, dev’essere il giudice istruttore dei suoi clienti: la cui utilità sociale è tanto più grande, quanto maggiore è il numero di sentenze di non luogo a procedere, che si pronunziano nel suo studio."
Ed ancora: "L’opera più preziosa degli avvocati civilisti è quella che essi svolgono prima del processo, stroncando con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio, e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria."
Ergo, ci si chiede se gli interventi normativi volti ad introdurre i metodi alternativi di risoluzione delle controversie, possano davvero giovare ad una giustizia già di per sé lenta e farraginosa, o avranno il solo effetto di allungare ancor di più il "parossismo morboso" di un processo civile attraverso l’introduzione di termini perentori da rispettare, casi di obbligatorietà, condizioni di procedibilità della domanda e, in ultimo, ulteriori costi.
Ai posteri l’ardua sentenza.
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