Legge Pinto: ritardo della Giustizia


Competenza, eredi, violazione del termine, conseguenze pregiudizievoli, an debeatur, determinazione del risarcimenro
Legge Pinto: ritardo della Giustizia
Con il nome Legge Pinto (estensore, Michele Pinto o legge 24 marzo 2001, n. 89) lo Stato ha disciplinato l’equa riparazione del danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l'irragionevole durata di un processo. L’impianto normativo è stato introdotto in Italia in osservanza dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che riconosce ad ogni persona il diritto a vedere la sua causa esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole, come componente del diritto ad un equo processo. L’art. 2 della legge 89/2001 stabilisce che chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ha diritto ad una equa riparazione. La norma ha stabilito che si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Al fine di vendersi riconoscere l’indennizzo per il ritardo della giustizia, atavico problema che colpisce la giustizia Italiana, occorre presentare ricorso alla Corte di Appello competente che provvederà ad esaminare le ragioni della richiesta analizzando la documentazione del processo che dovrà essere prodotta unitamente al ricorso in copia autentica.
1) COMPETENZA PER TERRITORIO - Ai sensi dell’art. 3 comma 1 della citata legge: "La domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata". Nel caso in cui il giudizio sia stato instaurato avanti al Tribunale di Roma la competenza per il ricorso ricade sulla Corte d’Appello di Perugia (Cass. SS. UU., Ord. n. 6306 del 16/03/2010).
2) TERMINE E CONDIZIONI DI PROPONIBILITÀ DA PARTE DEGLI EREDI AI SENSI DELL’ART. 4 L. 89/2001 - Nel caso in cui una parte del giudizio (attore o convenuto) sia deceduta anteriormente all’entrata in vigore della cd. legge Pinto (legge 89/2001), gli eredi sono legittimati a proporre richiesta di indennizzo per violazione del termine di durata ragionevole del processo, poiché la normativa interna ha semplicemente recepito, con rimedi interni, il diritto già contenuto nell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ratificata con legge 848/1955), in termini di ragionevole durata del processo. Con la pronuncia a Sezioni Unite n. 28597/2005, la Suprema Corte supera il suo precedente orientamento secondo cui la fonte del riconoscimento del diritto all'equa riparazione doveva essere ravvisata nella sola normativa nazionale (Cassazione 11046/2002; 11987/2002; 16502/2002; 5664/2003; 13211/2003), statuendo, quindi, "il principio che il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell'art. 6 della convenzione, di immediata rilevanza nel diritto interno", nella forma tra l’altro di parametro e di norma di rilievo e di livello sub-costituzionale, così come di recente più volte ribadito dalla stessa Corte Costituzionale.
3) VIOLAZIONE DEL TERMINE RAGIONEVOLE DI DURATA DEL PROCEDIMENTO E RESPONSABILITÀ DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA - A criterio della valutazione dell’irragionevole durata del processo chiaramente viene preso in considerazione il comportamento della parte nel giudizio, ovvero se essa abbia avuto comportamenti dilatori tesi unicamente a ritardare la decisione. Altro criterio di valutazione è la complessità del giudizio, pertanto ove la causa abbia avuto un decorso inspiegabilmente dilatato e non abbia dovuto prendere in considerazioni della fattispecie particolarmente complesse nell’istruttoria d’indagine risulterà ancora più concreto il diritto all’indennizzo. Pertanto vi è una responsabilità di tipo oggettivo del Ministero della Giustizia, individuato ex lege quale controparte processuale ai fini del presente ricorso ai sensi dell’art. 3, comma 2, legge 89/2001, quando è stato violato il termine ragionevole di durata del procedimento. Per attribuire tale forma di responsabilità non occorre provarne la colpa ex art. 2043 c.c., ma è sufficiente provare il dato oggettivo del tempo in eccesso trascorso dall’inizio del procedimento. Il presupposto della responsabilità del Ministero della Giustizia risiede nella violazione del termine di ragionevole durata del procedimento, indicato nell’art. 2, comma 2-bis, L. 89/2001. Deve inoltre essere evidenziato come, tra l’altro, il temperamento attingibile dai suddetti criteri non giustifica e non comporta in se’ una radicale sterilizzazione del dato temporale, dovendosi di contro considerare l’effettività del caso di specie in oggetto alla domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del procedimento presupposto. Infatti, anche nel caso in cui ci si dovesse trovare di fronte a cause complesse e in cui le parti abbiano tenuto un comportamento defatigatorio le stesse soggiacciono comunque alla norma che ne impone la definizione in un tempo ragionevole in quanto, secondo un principio enunciato dalle Sezioni Unite, il giudice deve fare fronte alla complessità del caso con un più risoluto ed incisivo impegno, ed al comportamento defatigatorio delle parti con l'attivazione dei rimedi all'uopo previsti dal codice di rito civile (Cass. n. 8600/2005; Cass. SS. UU., n. 1338 del 2004). In particolare va precisato che: A) per quanto riguarda i rinvii chiesti dalle parti, non tutto il lasso di tempo intercorso tra una udienza e l’altra può essere imputato al comportamento della parte che ha chiesto il rinvio, dovendo il giudice adito in sede di equa riparazione verificare se l’entità del rinvio sia ascrivibile anche a concorrenti cause dell’organizzazione giudiziaria (Cass. 30/03/2005 n. 6713; Cass. 7/2/2004 n. 6856). B) Va ascritta al sistema giudiziario nel suo complesso, la concessione di rinvii con intervalli concreti anche cospicui; il tempo decorso per rinvii d’ufficio e per gli aggiornamenti dell’udienza connessi allo svolgimento di attività istruttorie; le pause dovute ad adempimenti referendari ed elettorali; gli intervalli per scoperture dell’organico del personale negli uffici; i periodi di ferie. Infatti, a prescindere dalle esigenze dei rinvii di causa, è sufficiente rilevare che l’art. 175 c.p.c. impone al giudice istruttore di esercitare tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento, e l’art. 81 disp. att. c.p.c. stabilisce che i rinvii da una udienza all’altra non dovrebbero superare i 15 gg., a meno che non vi siano delle giustificate esigenze, che non possono però, in sé e sistematicamente, essere rinvenute astrattamente nello "stato di emergenza" in cui versa il sistema giustizia, e che finirebbe con ciò solo con il giustificare se stesso. L’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (Sent. CEDU 26/10/88, Martins Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia (Sent. CEDU 10/12/92, Boddeart c/ Belgio).
4) CONSEGUENZE PREGIUDIZIEVOLI PER LA PARTE CON PECULIARE RIFERIMENTO ALLA NATURA DELLA CONTROVERSIA - Il danno risarcibile ex art. 2 legge 89/01 è da tenere distinto da quello connesso alla vicenda giudiziaria, occorrendo mantenere netta la distinzione tra l’oggetto della causa antecedente e quello del giudizio di equa riparazione, il quale non può costituire, neppure indirettamente, un mezzo per replicare il merito della precedente controversia. Pertanto anche la parte soccombente del giudizio preso a riferimento ha diritto a rivolgere l’istanza per l’equo indennizzo. La principale fonte del riconoscimento dell’indennizzo tra origine dalla lesione morale subita dall’ingiustificata attesa della decisione, che è ancora più grave se si ha ad esame un giudizio di non particolare complessità. La riflessione a questo punto deve cadere sul fatto che nella maggior parte dei casi l’irragionevole durata del giudizio ha di fatto compromesso il diritto della parte ad un giusto processo nell’interezza dei tre gradi di giudizio, ed è chiara la violazione dell’obbligo dell’amministrazione Giudiziaria di rispondere adeguatamente all’accertamento della domanda svolta ove la causa si sia dilungata per anni ed anni. Allora l’aspetto da considerare al momento della richiesta di indennizzo sono le varie vicende personali che spesso coinvolgono i protagonisti della vicenda giudiziaria, che hanno dovuto attendere molti anni per l’accertamento delle loro pretese. La parte che si rivolge al Tribunale ha fame di giustizia chiede il vaglio della propria posizione e vuole che il giudice esamini il prima possibile le proprie pretese, sennochè, l’ingiustificata attesa determina risentimento, perdita di fiducia nel sistema Giudiziario, con innegabili ricadute personali dovute al protrasi di una causa che, in determinati casi, sembra non avere mai fine. A maggior ragione gli eredi che agiscono per il ristoro possono essere ulteriormente risentiti del ritardo della giustizia in quanto il loro dante causa non ha potuto vedere la fine di un giudizio per il quale ha speso energie tempo ed attenzioni.
5) AN DEBEATUR DELLA DOMANDA DI EQUA RIPARAZIONE - Le Sezioni Unite della Suprema Corte, conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno stabilito che, allorquando venga accertata la violazione del termine ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve presumersi esistente in se’, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa rivelarsi inesistente. Infatti è indubbio che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determini nel cittadino stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in genere nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale ai sensi del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del 2001, da liquidarsi in via equitativa (Corte appello Napoli, 13 dicembre 2001). Pertanto, una volta accertata la violazione deve, di regola, considerarsi "in re ipsa" la prova del relativo pregiudizio, nel senso che detta violazione comporta nella normalità dei casi anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (Cass. 16/2/2005 n. 3118). Tali richiami giurisprudenziali sono confermati poiché l’equa riparazione è un diritto non al risarcimento del danno, ma un indennizzo; di conseguenza, rimane irrilevante ogni eventuale riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità (Cass. Sez. Un. 27/11/2003-26/01/2004 n. 1339). Allora la parte non è tenuta alla prova del danno morale visto che le risultanze lesive sono la normale conseguenza che si verificano secondo l’id quod plerumque accidit (Cass. 29/03-11/05/2004 n. 8896): una volta accertata la sussistenza della violazione del termine di ragionevole durata del processo, la parte che assume di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza della eccessiva durata del processo, non è tenuta a fornire specifica prova dello stesso, atteso che, secondo la CEDU, il danno non patrimoniale (da identificarsi col patema d’animo, con l’ansia, con la sofferenza morale causate dall’esorbitante attesa della decisione), .......e, si verifica normalmente, e cioè di regola per effetto della violazione della durata ragionevole del processo, per cui deve ritenersi presente secondo l’id quod plerumque accidit senza bisogno di alcun sostegno probatorio (Cass. 12/08/2005 n. 16885). In definitiva, il riconoscimento del processo come causa di ansia, di stress e di dispendio di tempo ed energie suscettibile di dar luogo al risarcimento delle parti che lo abbiano irragionevolmente subito è da ritenere principio d’ordine costituzionale immediatamente precettivo (Cass. Sez. Un. 23/12/2005 n. 28507).
6) DETERMINAZIONE DEL QUANTUM DELLA DOMANDA PER L’EQUA RIPARAZIONE - La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con le sentenze n. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 26 gennaio 2004, ha stabilito che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale. Infatti anche se la Corte di Appello può discostarsi in modo ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in casi simili, sempre nel presupposto di dare adeguata contezza motivazionale nel provvedimento che decide dell’indennizzo per equa riparazione, deve attenersi a tali criteri, sul punto: la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata dalla Corte d’Appello a norma dell’art. 2 della legge n. 89/2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito che è definito dal diritto, perché deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, da cui è consentito discostarsi purché in misura ragionevole (Cass. 20235/2004). A mio avviso, pertanto, i nuovi parametri di indennizzo introdotti nel diritto interno con le recenti modifiche apportate alla cd. legge Pinto con il Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla Legge 7 agosto 2012, n. 134, devono comunque essere applicati secondo una lettura della norma costituzionalmente e convenzionalmente orientata e quindi nel rispetto dei parametri convenzionali. In tal senso la possibilita’ dei minori indennizzi, introdotta con le predette modifiche, non può costituire in se’ regola di riferimento acritica ed astratta per la determinazione dell’indennizzo dovuto a seguito della violazione del termine di ragionevole durata, ma piuttosto un riferimento di limite all’interno del quale quantificare eventuali indennizzi, minori rispetto a quelli normalmente dovuti e riconoscibili, solo in casi specifici e circostanziati, ed opportunamente motivati (come ad esempio per ricorsi per equa riparazione riferiti a procedimenti di natura amministrativa multipli e pluriseriali che vedano coinvolti un numero elevato di ricorrenti, tutti ugualmente concorrenti nella fattispecie oggetto del procedimento presupposto in cui si sia verificata la violazione del termine ragionevole di durata). Il margine di discrezionalita’ quindi, seppur espressamente riconosciuto al giudice ed al legislatore interni dalla stessa Corte EDU, non puo’ comunque tradursi in una mera operazione applicativa dei parametri che finisca col negare e rendere negletta l’effettivita’ al diritto ad un equo indennizzo (art. 41 C.E.D.U., in tema di equa soddisfazione), traducendosi nella sostanziale inefficienza e non effettivita’ del rimedio interno (art. 13 C.E.D.U., circa l’affettivita’ del rimedio interno, anche in riferimento all’art. 35 in tema di procedibilita’ del ricorso ed esaurimento dei rimedi interni). A maggior ragione i presupposti di deroga possono entrare in conflitto con le richieste dell’istante che sarà tenuto a dimostrare la rilevanza - in parte - della "posta in gioco" e comunque dell’evidente "entita’ del pregiudizio subito" in termini ed in relazione alla violazione del diritto ad una ragionevole durata del processo. Pertanto ritengo che la parte debba mettere in risalto tali elementi specificando l’importanza patrimoniale e personale che ha rivestito la causa al fine della corretta determinazione dell’indennizzo. Ulteriori elementi di quantificazione dell’indennizzo sono: 1) il principio secondo cui maggiore è stato il protrarsi della irragionevole durata del processo e maggiore deve essere l’indennizzo da dover riconoscere ; 2) l’evidenza e la rilevanza nel procedimento presupposto de quo non tanto del valore economico, quanto del suo valore affettivo, morale ed emotivo, e correttamente intesa come entità e rilevanza non solo materiale, ma anche morale del bene della vita dedotto in giudizio e dell’ "entita’ del pregiudizio subito" in relazione alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, da individuare correttamente negli anni di durata del procedimento presupposto a fronte del termine di non piu’ di cinque anni riconosciuto come detto sia in sede convenzionale che dal diritto interno come limite di ragionevole durata. Ritengo infine, sebbene tale interpretazione sembri non conforme all’impianto normativo, che per il calcolo dell’indennizzo deve tenersi a riferimento tutto il periodo effettivo di durata del giudizio, dal momento dell’introduzione della domanda sino alla pubblicazione della sentenza della Corte di Appello. Appare infatti illogico ritenere che vi debba essere un ristoro economico solo per il periodo eccedente il termine convenzionale entro il quale il giudizio avrebbe dovuto avere fine, visto che l’attesa per la decisione definitiva è iniziata a decorrere dal momento della domanda introduttiva. Avv. Massimiliano Migliorino

Articolo del:


di AVV MASSIMILIANO MIGLIORINO

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