Maltrattamenti in famiglia


Il reato si configura anche nella convivenza
Maltrattamenti in famiglia
Il reato di maltrattamenti in famiglia si configura in caso di maltrattamenti di una persona della famiglia o comunque convivente (o di una persona sottoposta all’autorità o affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte). La pena prevista è la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di persona minore degli anni quattordici. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 8401/2016 ha statuito che esiste il reato di maltrattamento in famiglia anche quando si tratta di coppia di fatto c.d. convivente.
Non c’è differenza tra la coppia fondata sul matrimonio e la coppia di fatto ai fini del reato di maltrattamenti in famiglia.
Quello che il giudice dovrà verificare, in situazioni come quelle sopra descritte, sarà che tra le parti vi sia stato un rapporto tendenzialmente stabile, seppur naturale e di fatto, che ha permesso l’instaurazione tra aggressore e vittima di legami di reciproca assistenza e protezione.
Si parla di famiglia pur in assenza di matrimonio, ma in presenza di un progetto comune di vita, con condivisione di beni che ha dato vita ad un nucleo familiare stabile.
In caso di relazione precaria e non costante, non si potrà parlare di famiglia e, di conseguenza, l’eventuale condotta violenta del partner potrà essere punita a titolo di reato di lesioni, minaccia ecc. ma non a titolo di maltrattamenti in famiglia.
Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia ove siano riscontrabili atti di vessazione reiterata tali da cagionare sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni che scaturiscano in uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di esistenza (Cassazione penale sez. VI 20 gennaio 2015 n. 4849).
Sono solitamente le donne ad essere le vittime di questo reato e molto spesso si mostrano titubanti e dubbiose nel denunciare i loro compagni/mariti per paura di scatenare in loro reazioni ancor peggiori e di non essere tutelate in caso di ritorsioni.
Altre volte l’attesa nel deposito di un atto di denuncia e querela è dettato dalla speranza che il compagno/marito "cambi".
Purtroppo il più delle volte questo non accade e le vessazioni e i maltrattamenti perdurano nel tempo.
Il maltrattante agisce consapevolmente conscio che la sua condotta continuerà a ledere la personalità della vittima e perciò non è intenzionato a porre fine alla sua condotta.
Sul punto la Suprema Corte ha statuito che il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima; non occorre in altre parole che l'agente deliberi una volta per tutte di imporre ai familiari un penoso regime di vita e concepisca unitariamente le proprie condotte in senso strumentale alla realizzazione di quest'obiettivo, essendo piuttosto sufficiente che le condotte vessatorie siano tenute nella consapevolezza del loro carattere ripetuto, e della loro idoneità a creare una stabile e dolorosa patologia della vita familiare. Cassazione penale sez. VI 22 ottobre 2014 n. 1400.
Il mio consiglio è quello di denunciare sempre tali comportamenti all’autorità giudiziaria, senza timore, perché questo è l’unico modo per porre fine a tali intollerabili situazioni.
L’autorità giudiziaria intervenendo agirà nel modo migliore per porre in stato di tutela la vittima del reato.

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di Avv. Federica Battistoni

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