La decorrelazione degli investimenti funziona ancora?
Il 2018 era iniziato nei modi migliori. Partito scoppiettante nel mese di gennaio, dove quasi tutte le asset class di investimento tradizionale avevano realizzato performance stellari in un solo mese, si è concluso con gli operatori e gli investitori di mercato, le cosiddette “mani forti”, cadute nel panico più completo, a causa delle tempesta perfetta generata dalle dichiarazioni del 18/12/2018 del governatore della FED, Jerome POWELL, che confermava due ulteriori rialzi dei tassi di interesse USA nel 2019, e dal tipico mercato illiquido di fine anno.
Risultato? Performance di mercato 2018 negative per il 90% delle asset class tradizionali, evento molto raro negli annali della finanza, e risparmiatori impauriti e sconcertati.
La “memoria corta”, metro principale ormai di qualsiasi valutazione nella nostra vita, sta riducendo sempre più le nostre capacità di giudizio razionali, amplificando tutti i possibili “errori cognitivi”. Ci ha persino fatto scordare che oltre l’80% delle stesse asset class aveva dato risultati positivi in simil misura, appena l’anno precedente. La dimostrazione che l’aumentata correlazione fra i rendimenti di mercato ha ridotto la capacità di diversificazione delle varie famiglie di investimento tradizionale.
Tale situazione è molto probabilmente figlia del prolungato periodo di gestione emergenziale delle politiche monetarie di tutte le principali Banche Centrali mondiali che, a seguito degli squilibri generati dalla crisi del primo decennio degli anni duemila, hanno di fatto mandato in soffitta la vecchia teoria monetaria, assuefacendo i mercati e le economie a tassi di interesse nulli e a una liquidità praticamente illimitata.
La durata e l’intensità di tali interventi hanno portato gli operatori di mercato alla ricerca spasmodica di performance, a seguire i pifferai magici delle Banche Centrali, azzerando quasi completamente, oltre che i tassi, anche le opportunità di mercato e, di conseguenza, le possibilità di diversificazione che queste garantivano.
Strumenti in passato molto decorrelati (si pensi, ad esempio, all’andamento delle obbligazioni rispetto alle azioni) hanno avuto negli ultimi tempi andamenti del tutto simili.
Le conseguenze più evidenti si hanno nella stessa direzionalità di quasi tutti gli investimenti al rialzo, o al ribasso in situazioni di panico dovute ad eventi imprevisti o poco graditi ai mercati (ad esempio la svalutazione improvvisa dello Yuan Cinese del 2015 o il referendum per la Brexit), oppure nelle fasi negative un po’ più prolungate, generate dai cambiamenti di atteggiamento sui tassi di interesse e/o di liquidità da parte delle Banche Centrali, come nel 2015 e nel 2018.
E’ evidente che la situazione ha superato da tempo i limiti che avrebbero dovuto contraddistinguere una fase emergenziale, modificando l’atteggiamento degli operatori, sempre più dipendenti ed esposti anche a piccoli cambiamenti in termini assoluti dei tassi e/o delle condizioni di liquidità e generando, anche, il cosiddetto fenomeno di “risk-on”/“risk-off” sui mercati, dove l’unico rifugio sicuro diventa la liquidità.
La fantasia creativa della Banche Centrali fa e ha fatto a comodo a tutti, ma siamo sicuri che, nel lungo periodo, i benefici siano superiori ai cambiamenti e agli effetti strutturali che esse hanno determinato? Se i tassi tendono sempre a zero, nel tempo, non c’è il rischio che anche la produttività e i margini tendano a zero? La risposta ad ogni ostacolo è stata elevare il livello di intervento in maniera del tutto autoreferenziale, distorcendo e modificando l’andamento dei mercati, spesso in sostituzione di interventi che avrebbero dovuto avere origine politica e dove i maggiori beneficiari sono quasi sempre individuabili nel mondo della finanza e non dell’economia reale.
Sappiamo già quali sono gli effetti più distorsivi per gli investitori e i risparmiatori:
a) la riduzione della capacità di diversificazione delle asset class tradizionali, che porta a detenere percentuali di liquidità più alte del necessario;
b) la riduzione dei rendimenti prospettici futuri, (quando i prezzi di mercato attualizzano i flussi futuri a tasso zero od addirittura negativo, i prezzi di fatto hanno raggiunto il loro massimo potenziale);
c) l’aumento della volatilità di mercato e di conseguenza del rischio per gli investitori, che in futuro potrebbero chiedere un aumento del premio a rischio; d) la creazione di bolle speculative.
Gli operatori di mercato, ormai consci delle condizioni di cui sopra, stanno già cercando alternative anche al di fuori degli investimenti convenzionali, mentre i vecchi beni rifugio, in primis l’oro, faticano a continuare ad esser considerati come tali.
Quali potrebbero essere le prossime frontiere future nella diversificazione dei portafogli?
Nel mio prossimo articolo proverò a darvi risposta.
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