La gestione dei bar nei circoli privati e nelle associazioni
Il bar gestito da un circolo ricreativo è da tanti oggetto di interesse sia per i gestori stessi che per l'amministrazione finanziaria e le amministrazioni locali.
Cerchiamo, in questo articolo, di fare il punto sulla questione, partendo dalla normativa tributaria.
E’ doveroso fare una premessa: quando si parla di bar di un circolo facciamo riferimento ad un locale (non aperto al pubblico) gestito da una associazione.
Si può trattare di una associazione culturale aventi fini ricreativi ovvero di una associazione sportiva dilettantistica o anche di una associazione di promozione sociale: oltre a queste tre categorie di enti no profit ve ne sono chiaramente altre, ma credo che la maggior parte dei bar associativi ricadano all'interno della suddetta ipotesi.
La base di riferimento per la normativa tributaria sono l'articolo 4 del decreto che disciplina l'IVA (il 633 del 1972) e gli articoli 143 e 148 del Testo Unico per le Imposte sul Reddito (DPR 917/1986, TUIR) relativamente alla disciplina per le imposte dirette.
Storicamente le attività di spacci, mense aziendali, somministrazioni di pasti erano sempre e comunque attività commerciali, anche se svolte da un'associazione che non ha fini di profitto e anche se svolte nell'ambito diretto o indiretto delle proprie attività istituzionali.
Somministrare pasti non significa, però, somministrare alimenti e bevande, ovvero gestire un bar: nel primo caso si manipola il cibo, lo si trasforma dal punto di vista organolettico, nel secondo caso al limite si scalda cibo precotto o si fa il classico panino infarcito...
E' sorto storicamente il dilemma di come considerare tale attività.
Andando indietro nel tempo una Circolare del Ministero delle Finanze del 1979 (la 25) escludeva la qualsiasi tassazione e commercialità dell'attività di bar, ma a distanza di quasi 20 anni in una risoluzione del 1995 (la 217/E) cambiò orientamento: necessaria la partita IVA e lo scontrino!
A fronte di questo, gli orientamenti della giurisprudenza sono stati talvolta contrastanti, ma in generale se da questo tipo di attività non si ricava lucro, ovvero la somministrazione di alimenti e bevande viene fatta a sola copertura dei costi, un orientamento prevalente della Cassazione porta a non considerare commerciale tale attività.
A risolvere il tutto, il comma 5 dell'articolo 148 del TUIR e il comma 6 dell'articolo 4 del' DPR IVA, che hanno statuito che solo le Associazioni di Promozione Sociale (APS) riconosciute dal Ministero dell'Interno, nel rispetto di determinate condizioni, possono essere esentate da considerare commerciale la gestione del bar riservato ai soci.
La prassi amministrativa si è poi conformata a tale orientamento (Circolare 124/E del 1998) mantenendo altresì un orientamento del 197 (Circolare MinInterno del 19 febbraio) che stabiliva un numero minimo di 100 soci per le APS riconosciute a livello nazionale.
A livello di amministrazione locale un DPR del 2001 (il 235) ha reso in vigore un regolamento per la semplificazione del rilascio di tali autorizzazioni e anche a livello locale viene sancita la differenza tra APS riconosciute dal Ministero per i propri fini o meno.
Non dimentichiamo, infatti, che una APS che intenda gestire un bar riservato ai soci deve presentare al Comune una Denuncia di Inizio Attività (DIA).
Nell'ambito delle condizioni di esercizio del bar occorre rispettare quelle igienico sanitarie, di sicurezza dei locali e di regolarità edilizia degli stessi (ad esempio non possono aprire un bar in un locale classificato come magazzino).
Da ricordare che devono essere presenti altre condizioni come Statuti associativi redatti in maniera tale che vengano rispettate le condizioni per godere delle agevolazioni tributarie, i locali possono essere aperti solo ai soci, agli associati (soci di altre associazioni facenti parte della stessa APS) ovvero agli affiliati (non soci di altre associazioni facenti parte della stessa APS nazionale ma aderenti solo all'ente nazionale direttamente), il locale non deve essere aperto al pubblico ed avere accesso diretto su strada pubblica (classica porta chiusa con indicazione di "accesso riservato ai soci").
Ricordiamo, infine, che questa attività decomercializzata non deve essere attività prevalente o unica dell'associazione, ma solo di supporto e complementare ad una più generica attività istituzionale di carattere sociale.
E' interessante rimarcare come la Corte di Cassazione abbia sottolineato in cosa consista questo carattere di "complementarietà": la gestione contabile tra entrate e uscite del bar deve essere sostanzialmente in pareggio, ovvero se risulta un avanzo lo stesso deve essere giustificato in occasione dell'approvazione del rendiconto annuale da parte dell'Assemblea dei Soci (e in precedenza del Consiglio Direttivo che ne ha approvato la bozza).
La giustificazione può essere rapportata alla necessità di liquidità per copertura di altre attività istituzionali i cui contributi ai costi, versati dai partecipanti all'attività, risultassero non sufficienti alla copertura dei costi.
Un altro elemento suggerito dalla Cassazione è l'esistenza o meno di una rilevante organizzazione in forma d'impresa preposta alla gestione del bar: ovvero gli investimenti realizzati per l'esercizio dell'attività.
Altro elemento critico è la pubblicità: mi capita spesso di vedere APS o enti no profit in genere che si dilettano, tra cartellonistica stradale e inserzioni Google o Facebook, a spendere in tal senso.
Un rischio notevole di vedere contestata la commercialità della propria attività complessiva.
La riforma del Terzo settore
Con l'entrata in vigore della riforma del Terzo Settore e del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS) le APS non avranno più una base normativa nell'articolo 148 del TUIR bensì nell'articolo 85 del Codice del Terzo Settore (D.lgs. 117/2017).
La normativa tributaria agevolativa non è cambiata, ma per le APS che saranno ETS non sarà più possibile accettare nei propri locali a uso bar gli affiliati, come sopra descritti.
Massima attenzione in tal senso.
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