Il procedimento disciplinare a carico del professionista psicologo
Con la sentenza n. 17284/2021 il Tribunale di Roma ha annullato il provvedimento disciplinare adottato dal Consiglio Regionale dell’Ordine degli Psicologi del Lazio nei confronti di un suo iscritto, per violazione degli artt. 2 e 7 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.
La vicenda in esame trae origine dall’esposto presentato al suddetto Ordine da un soggetto di sesso femminile la quale riferiva come il professionista psicologo, su incarico del suo ex compagno, avesse redatto una “perizia clinico psicologica psicometrica” nella quale, tra l’atro, esprimeva valutazioni sulla sua personalità ed i suoi comportamenti, senza che mai il professionista l’avesse conosciuta o esaminata, ma assumendo per veritiere le mere dichiarazioni del suo ex compagno.
Quest’ultimo, poi, aveva prodotto detta perizia in un giudizio per risarcimento danni non patrimoniali proprio nei confronti dell’esponente, con cui aveva avuto una relazione sentimentale.
Infatti, lo psicologo, dopo diversi di colloqui e una serie di test, aveva accerto che i danni diagnosticati sul suo paziente fossero compatibili con la condotta persecutoria da questi lamantata ed operata della sua ex compagna (mai menzionata per nome nella perizia, ma definitacompagna occasionale). In particolare, nel suo elaborato, lo psicologo si soffermava sulle vessazioni subite dal suo paziente .
Dunque, la Commissione deontologica dell’Ordine disponeva l’apertura di un’istruttoria e, a definizione del procedimento disciplinare seguito, il Consiglio Regionale sanzionava la condotta dell’incolpato con la sospensione di un anno dall’esercizio della professione, per violazione dell’art. 2 (inosservanza dei precetti stabiliti dal Codice) e, in particolare, dell’art. 7 del Codice Deontologico: “per aver espresso (…) valutazioni e giudizi professionali chiaramente riferibili alla OMISSIS (pur se definita “compagna occasionale”), non fondati su conoscenza professionale diretta, ovvero su documentazione adeguata e attendibile. In particolare (…) senza avere una conoscenza diretta della stessa”.
L’iscritto impugnava il provvedimento disciplinare presso il Tribunale di Roma, in base a quanto disposto dall’art.19 legge 56/1989 (Ordinamento della professione di psicologo). In particolare, sosteneva di aver riportato i fatti riferiti dal paziente, accompagnando la narrazione con il c.d. “dubbio prudenziale” (“il paziente riferisce che…”), senza peraltro menzionare mai l’esponente, ex compagna di questi, con cui, confermava di non aver avuto mai alcun colloquio.
Passando all’analisi dell’illecito disciplinare contestato, appare utile ricordare la lettera dell’art. 7 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani: “Nelle proprie attività professionali, nelle attività di ricerca e nelle comunicazioni dei risultati delle stesse, nonché nelle attività didattiche, lo psicologo valuta attentamente, anche in relazione al contesto, il grado di validità e di attendibilità di informazioni, dati e fonti su cui basa le conclusioni raggiunte; espone, all’occorrenza, le ipotesi interpretative alternative, ed esplicita i limiti dei risultati. Lo psicologo, su casi specifici, esprime valutazioni e giudizi professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta ovvero su una documentazione adeguata ed attendibile”.
Sul punto, le Commissioni deontologiche degli Ordini regionali degli psicologi appaiono propendere per una stretta osservanza della citata disposizione, al fine di garantire il rigore metodologico, l’attendibilità del dato rilevato, la corretta gestione delle variabili e, quindi, in sintesi, la credibilità del professionista e dell’intera categoria di appartenenza, al momento di formulare una diagnosi.
Si vuole, altresì, disincentivare l’uso meramente processuale delle relazioni incaricate dai pazienti, in quanto non garantiscono una serena e proficua valutazione psicologica. Anzi, proprio in tali casi, sarebbe richiesta al professionista psicologo una più rigorosa ponderazione delle dichiarazioni ricevute dal paziente.
Infatti, ogni valutazione psicologica deve poggiare sull’attendibilità delle informazioni, dati e fonti o, quantomeno, sulla presentazione critica delle conclusioni a cui il professionista è potuto giungere con gli elementi acquisiti attraverso la sua attività terapeutica (i due aspetti sono alternativi, ma non confliggenti).
Ebbene, nel caso di specie, i giudici di Roma non hanno ritenuto corrette le censure mosse nei confronti dell’iscritto.
Difatti, il collegio rilevava come il professionista non avesse effettivamente formulato alcuna conclusione o giudizio specifico con riferimento alla condotta tenuta dall’esponente (peraltro mai menzionata con nome e cognome nella perizia), ma unicamente con riferimento al danno lamentato dal paziente. Inoltre, nel fare ciò, il professionista aveva fondato le sue conclusioni su una attività articolata a più livelli: a) una visita personale del paziente; b) un colloquio clinico; c) la valutazione di sei test differenti somministrati al paziente.
Per altro verso, lo stesso Collegio riconosce che il contesto dell’incarico conferito, dal paziente al professionista psicologo, escludeva in radice la possibilità di qualsiasi conoscenza professionale diretta tra il ricorrente e la ex compagna di questi. Sicché, le presunte valutazioni, espresse nella parte narrativa della perizia, erano conseguenza di quanto lo psicologo si era limitato a recepire del racconto dei fatti da parte del paziente, riscontrandolo peraltro con gli esiti dei test e con quanto allegato nei documenti prodotti dallo stesso.
Alla luce delle suddette argomentazioni il Tribunale ha, dunque, revocato la sanzione disciplinare inflitta al professionista.
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