La responsabilità della banca per concessione abusiva del credito

Si tratta, con questo articolo, della cd. concessione abusiva del credito.
Il tema è, dunque, quello della banca che abusi del proprio potere per concedere il credito a un proprio cliente, perseguendo obiettivi anomali.
La Cassazione, da tempo, ha affermato che “l’abusiva concessione di credito ad imprenditore potenzialmente insolvente, rendendo probabile la lesione di equilibrio di tale sistema, può concretare, nei confronti dei terzi, la cd. colpa extracontrattuale” (Cass. 13 gennaio 1993 n. 343).
Questa condotta, infatti, è capace di pregiudicare gli altri creditori dell’imprenditore.
Contrasta, inoltre, con i principi della sana e prudente gestione e della stessa funzione bancaria, obbligata ad “adottare tutte le cautele idonee ad evitare danni all’utenza ed alle altre banche”, secondo lo schema della solidarietà sociale ex art. 2 cost.
V’è pure responsabilità contrattuale qualora non vengano adottati comportamenti che debbano ritenersi doverosi in relazione alla peculiarità del caso concreto (Cass. 13 gennaio 1993 n. 342).
La concessione abusiva di credito, a causa dell’affidamento ingenerato nei creditori da un finanziamento che abbia provocato una situazione di apparente solvibilità, determina un pregiudizio nei confronti dei creditori del finanziato e, secondo taluni, del finanziato medesimo.
I criteri di valutazione dell’attività erogativa del credito sono stati, di volta in volta, identificati nella disciplina speciale che regola l’attività bancaria. La condotta dell’istituto di credito deve valutarsi secondo un rigoroso dovere di lealtà e buona fede, che si traduce nell’evitare una condotta abusiva.
Molteplici sono le condotte che hanno determinato l’ipotesi di abusività: omissione di attività istruttoria e, quindi, di corretta valutazione del rischio del credito, tolleranza di reiterati sconfinamenti, pur nella consapevolezza della decozione del correntista, assistenza finanziaria onde procrastinare la crisi irreversibile, etc.
Spesso, gli stessi curatori dei falliti, sulla scorta dei principi individuati, hanno chiamato la banca a rispondere in via aquiliana per “concessione abusiva di credito” nei confronti della massa dei creditori concorsuali.
L’interesse pregiudicato è parso e pare quello della libertà contrattuale, per cui i danneggiati si ripartono in due categorie: quelli con credito anteriore alla concessione abusiva; e quelli successivi, danneggiati per essere stati indotti in particolare a contrarre in presenza di una situazione di solo apparente solvibilità (cfr. Nigro, Note minime in tema di responsabilità per concessione abusiva di credito e di legittimazione del curatore fallimentare in Dir. Banca merc. Finanz. 2002, I, 297).
Talora, si è fatto ricorso anche alla figura dell’induzione all’inadempimento, con ravvisamento nell’azione della banca della fonte di responsabilità concorrente con quella della società decotta.
Si tratta, talora, di sottoscrizione di inidonei piani di risanamento o accordi di ristrutturazione, con esclusiva finalità dilatoria.
Tuttavia, il diffuso ricorso alla configurazione, da parte degli organi delle procedure concorsuali, della responsabilità per abusiva concessione di credito, ha indotto, sia nelle Corti di Merito sia nella Cassazione, preoccupazioni per le conseguenze sistemiche di tutto ciò.
Non solo, ma specularmente, l’incertezza ha spinto molti banchieri a denegare accesso al credito al manifestarsi del più labile sintomo di difficoltà del cliente.
Il che ha portato ad un revirement giurisprudenziale.
Tale modifica dell’atteggiamento della giurisprudenza comporta responsabilità dell’ente creditizio “solo nel caso di concessione o protrazione del credito in favore di un’impresa che si trovi già a versare in stato di insolvenza e non, invece, nel caso in cui tale situazione sia solo tendenziale o potenziale” (Corte App. Milano 11 maggio 2004 in Banca borsa ecc. 2004, II, 643, con nota di VISCUSI).
Il colpo più duro all’azione del curatore deriva dalla considerazione individuale del pregiudizio sofferto dai creditori, in relazione cioè alla specifica posizione creditoria, diverso essendo, per ciascuno di essi l’interesse leso, secondo che il credito sia anteriore o posteriore all’erogazione abusiva, con conseguente sottrazione al curatore della relativa azione, principio affermato fin dal 2001 dalla Cassazione (Cass. Civ. sez. I 9 ottobre 2001 n. 12368 in Foro it.).
Questo principio ha trovato conferma anche in Cass. Sez. un. 28 marzo 2006 n. 7029 n. 7031 secondo cui l'azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno, per effetto dell'abusiva concessione bancaria di credito a favore di società fallita, in quanto repressiva di un illecito di natura concorrenziale, non rientra fra quelle cd. di massa, esercitabili in nome e per conto del ceto creditorio da parte del curatore fallimentare, il quale è carente di legittimazione a proporla.
Né l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., né quella ex art. 2395 c.c. possono, dunque, essere ricondotte alle azioni di massa. Il danno da sovvenzione abusiva, dunque, deve essere valutato caso per caso, essendo ipotizzabile che i creditori aventi diritto al riparto non abbiano ricevuto effettivo pregiudizio dalla continuazione dell’impresa (per esempio, se conoscevano essi stessi lo stato di insolvenza). Ancor più marcata è poi la differenza in relazione all’epoca dell’insorgenza della posizione creditoria.
Tuttavia, con la sentenza n. 9983 del 2017, qualcosa muta, nel senso che la Corte riapre parzialmente la strada all’azione di massa per abusiva concessione di credito, sotto il diverso profilo del concorso della banca con gli amministratori della società fallita nella produzione del danno, affermando - in tal caso - che il curatore fallimentare è legittimato ad agire nei confronti della banca finanziatrice.
Comunque, i soggetti lesi dall’illecito possono esperire azione di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. per violazione del principio del neminem laedere:
in tema di concessione abusiva di credito, sussiste la responsabilità della banca, che finanzi un'impresa insolvente e ne ritardi perciò il fallimento, nei confronti dei terzi che, in ragione di ciò, abbiano confidato nella sua solvibilità ed abbiano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa, allorché sia provato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa (Cassazione civile sez. I, 14/05/2018, n.11695).
La questione del danno all’impresa finanziata può venire in considerazione nell’ipotesi di concorso dell’istituto di credito con gli amministratori dell’impresa insolvente, nella produzione del danno da abusiva concessione del credito (Cass. Civ. sez. I. 1 giugno 2010 n. 13413).
Si è parlato di inadempimento contrattuale, che arreca un danno economico, con espansione della situazione debitoria (illecito civile).
In questo caso, il curatore fallimentare sarebbe legittimato ex art. 146 L.F. in correlazione con l’art. 2393 c.c. nei confronti della banca, quale terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita.
Per l’entità del danno, valgono i soliti principi di commisurazione del pregiudizio, previa ricostruzione dei dati patrimoniali e sottoposizione degli stessi ad attento vaglio di causalità rispetto al comportamento abusivo della banca.
La prescrizione dell’azione sarà diversa a seconda di responsabilità contrattuale od extracontrattuale.
Si segnala da ultimo anche una recente pronuncia della Suprema Corte:
La concessione di credito da parte di un istituto di credito a una società che sia già insolvente e che, quindi, ne ritardi il fallimento è qualificabile come abusiva e costituisce una condotta illecita, obbligando, di conseguenza, l’istituto di credito a risarcire il danno, nel caso in cui tale condotta provochi un danno ad un terzo che abbia continuato ad avere rapporti contrattuali con il soggetto decotto, poiché ignorava incolpevolmente la reale situazione economica della società.
Non è configurabile la responsabilità per abusiva concessione del credito nel caso in cui il terzo danneggiato sia una società controllata della società insolvente a cui l’istituto di credito ha concesso il credito e che sia amministrata dai medesimi soggetti della seconda, mancando in questo caso in capo al terzo, infatti, il requisito dell’ignoranza incolpevole dello stato di decozione della società.
L’attiva partecipazione degli amministratori alle operazioni della società non costituisce un evento interruttivo del nesso causale tra fatto - abusiva concessione del credito - e danno eventualmente subito dal terzo creditore, essendo necessario per la configurazione di un’effettiva interruzione del nesso causale che la condotta del danneggiato - la società - sia idonea di per sé a causare il danno, circostanza quest’ultima non configurata nel caso di specie, poiché la banca, in piena autonomia, ha continuato a concedere credito al debitore decotto (Cassazione civile sez. I, 14/05/2018, n.11695).
Da ultimo, si veda l'art. 325 del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza-da armonizzare con le questioni sopra evidenziate- che così recita:
1. Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli 322 e 323, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.
2. La pena è aumentata nel caso di società soggette alle disposizioni di cui al capo II, titolo III, parte IV, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
3. Salve le altre pene accessorie di cui al libro I, titolo II, capo III, del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a tre anni.
Il reato si consuma nel momento della dichiarazione di fallimento (ora liquidazione giudiziale); secondo altro orientamento (Cass. Pen. 4021/1997) il reato in parola non richiede che il soggetto cui esso sia dichiarato fallito.
L'elemento oggettivo del reato si ha laddove l'imprenditore, al di fuori dei casi di bancarotta fraudolenta o semplice, ricorra o continui a ricorrere al credito (prestiti, finanziamenti, anticipi per successive prestazioni, sconto di cambiale e qualsiasi negozio giueidixo di concessione di credito). E' reato anche la dissimulazione dello stato di dissesto.
Cesare Menotto Zauli
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