Lavoro in squadra: risorsa o ulteriore fonte di stress?

Introduzione
Spesso le persone, che si rivolgono a me, portano disagi e malesseri vissuti nell’ambiente lavorativo, soprattutto con i colleghi e il proprio dirigente e anche nella mia esperienza di consulenza e formazione aziendale la vita di gruppo è frequente fonte di stress.
Ogni organizzazione, dalla più semplice alla più complessa, si regge sul lavoro di alcune persone, fra loro interconnesse, e il loro stare bene assieme dipende dal modo di essere, operare e comunicare all’interno dei vari gruppi di lavoro, inevitabilmente influenzati dalle storie e competenze individuali, dalla composizione della squadra, dal modello organizzativo e dalla cultura prevalente, dalla diffusa consapevolezza e coerenza o meno con gli obiettivi di benessere organizzativo e di prevenzione dello stress lavoro correlato (SLC).
In questa sede, soffermandoci su sette elementi costitutivi del gruppo di lavoro (Quaglino G. P. et al.1992), vogliamo portare l’attenzione sui rischi di stress e possibile disgregazione e su quanto, invece, possa favorire la coesione, l’efficienza e il benessere organizzativo. Consapevoli che “La convivenza nelle società e tra le comunità non può più fare affidamento su regole e su appartenenze consolidate ma richiede un’opera costante di impegno, di esplorazione, di integrazione, di rispetto delle differenze”.[1]
1- Gli obiettivi
In un gruppo di lavoro la mancanza di condivisione degli obiettivi è spesso stressante e demotivante perché non attiva il senso di appartenenza. “Mi sono trovato molto male in una piccola cooperativa – ha raccontato una corsista – perché il Presidente e il suo gruppo ristretto di “fidati” non ci coinvolgeva a livello programmatico né come Consiglio, né come Assemblea. A noi del Consiglio veniva chiesto di ascoltare e approvare le varie pianificazioni. Mi sentivo una rotella di un ingranaggio che non riuscivo a vedere. Un po’ come Charles Chaplin in tempi moderni.”
“In molte scuole in cui ho lavorato – mi ha detto un’insegnante – il dirigente sceglieva il suo gruppo di colleghi con cui decideva quasi tutto. Il resto degli insegnanti veniva chiamato ad approvare per alzata di mano. Ovviamente in questa condizione durante il Collegio dei Docenti c’era chi chiacchierava, chi pensava ai fatti suoi. In genere il dirigente e i “bravi” si lamentavano della mancanza di responsabilità dei docenti del Collegio, senza rendersi conto che non li avevano assolutamente coinvolti.”
La partecipazione attiva alla vita di qualsiasi organizzazione richiede, quale primo passo, il coinvolgimento delle persone nella fase di definizione delle finalità e degli obiettivi su cui sono chiamati a lavorare. Occorrono un’esplicitazione chiara e una condivisione, attraverso un confronto fattivo e una valutazione delle effettive risorse e una programmazione e pianificazione dei tempi condivise. Se è carente, ad esempio, la pianificazione dei tempi, possono esserci rischi di stress lavoro correlato, perché le persone sono frequentemente soverchiate d’impegni difficilmente attuabili nei tempi previsti, se non con uno sforzo incredibile e con l’invasione dell’onere lavorativo nei propri momenti di vita extralavorativa, di relax e rigenerazione.
“Mi sono trovato – mi ha raccontato un paziente – a lavorare in un’azienda, in cui il responsabile del nostro gruppo mi chiamava nel pomeriggio per chiedermi per il giorno dopo un lavoro, che richiedeva analisi di dati, confronto con gli altri e quindi tempi necessariamente più lunghi. Se io gli dicevo qualcosa a proposito della mia difficoltà e degli altri colleghi, mi ripeteva sempre la solita frase: “bisogna stare sul pezzo!”. Assumeva un tono colpevolizzante, mentre in realtà era lui che non sapeva pianificare. Non sopportavo più questo modo di fare. Sono riuscito dopo molto tempo e stress a trovare un altro lavoro, in cui finalmente c’è un buon livello di programmazione e pianificazione.”
Chi dirige, nel chiedere un sovraccarico di lavoro, deve aver chiaro che “L’individuo si impegna a fornire una prestazione lavorativa che richiede un certo sforzo individuale (effort), ossia la mobilitazione e il dispendio di energie psicofisiche, in cambio della possibilità di soddisfare alcuni bisogni ritenuti fondamentali (stima di sé, ecc.). Questa soddisfazione si realizza in pratica attraverso l’assegnazione di forme di ricompensa.”[2] Le ricompense, secondo il modello di rischio Effort-Reward Imbalance (Eri) del tedesco Siegrist, sono sostanzialmente di tre tipi: economica, stima personale e mantenimento del posto di lavoro e di carriera (Fraccaroli F, Balducci C. 2011).
2- I ruoli
Un altro possibile fattore di malessere organizzativo si ha quando non è chiaro chi fa che cosa e manca una chiara individuazione delle persone più adatte a svolgere una determinata mansione per le effettive competenze, abilità ed esperienze.
“Mi sono trovata a lavorare in un ufficio – ha comunicato una partecipante a un corso di formazione – in cui una parte del lavoro richiedeva contatti con le Istituzioni e questa mansione, di volta in volta, era data casualmente a qualcuno senza valutare chi fosse più adatto o meno. Solamente dopo che tutti hanno svolto questo ruolo, ripetendo gli stessi errori, il dirigente si è reso conto che solo una persona sapeva cosa fare e come per portare avanti le trattative e l’ha scelto per quel ruolo particolarmente delicato. Eppure nel curriculum del collega era ben chiaro come nei suoi precedenti lavori si fosse occupato delle relazioni con le Istituzioni. Questa mancanza di attenzione alle competenze ha inevitabilmente creato, oltre ad una perdita di successo per l’azienda, malessere in chi falliva e in chi non veniva riconosciuto come competente!”
Nell’assegnare i vari ruoli non ci si può limitare a dire chi fa che cosa o perché, occorre piuttosto dare a ognuno delle mansioni, tenendo conto delle sue attitudini, competenze e motivazioni ed eventualmente potenziandone le abilità necessarie. Vuol dire, in definitiva, cogliere le specificità, le differenze e saperle valorizzare.
3- Il metodo
Un’altra variabile fondamentale per il successo del lavoro di squadra è il metodo di lavoro.
“Ho cambiato impiego – ha raccontato in un corso una giovane dirigente – perché ero troppo sotto stress e fortunatamente ce l’ho fatta. Quando c’era un nuovo progetto, mi veniva detto cosa fare in modo vago e io dovevo inventarmi tutto, anche le soluzioni alle inevitabili difficoltà!”
In realtà chi dirige ha il compito di concordare con chiarezza il metodo di lavoro necessario, indicandone le fasi, le risorse e i vincoli, pianificandone le azioni, le procedure, i tempi, le modalità operative, gli strumenti e le strategie necessarie. Occorre, inoltre, condividere con le persone le difficoltà che non riescono a risolvere e la ricerca delle strategie per cercarne la soluzione.
“Finalmente – ha comunicato un partecipante a un corso di formazione – ho trovato l’ambiente lavorativo adatto a me. Ho dovuto cambiare città, ma sono contento. Collaboriamo e soprattutto quando ci sono delle difficoltà. In quello precedente, quando non sapevo cosa fare dovevo trovare la soluzione da solo, altrimenti il dirigente si sarebbe infuriato!”
Una chiara definizione metodologica è indispensabile, dunque, per lavorare con efficacia e agio, ottimizzando le risorse dei singoli componenti.
4- Il ruolo della leadership
Il livello di benessere in un gruppo di lavoro dipende da tutti: member e leader, ma quest’ultimo ha senz’altro un ruolo prevalente. Dal suo modo di gestire può originare buona parte del benessere o del malessere di tutto il gruppo.
Un leader è vissuto come particolarmente disturbante quando è percepito centrato solo su di sé – obiettivi che vuole raggiungere, sua visibilità, ecc. – e poco attento alle persone che lavorano con lui: alle loro specificità, bisogni, ma anche potenzialità.
“Ho lavorato in varie aziende – mi ha detto un giovane ingegnere – e quello che fa la differenza è l’atteggiamento che ha il dirigente. Lo senti subito se ti vede e cerca di valorizzarti al massimo in modo da farti sentire partecipe, utile in quello che si deve fare, oppure se è centrato solo sui suoi obiettivi, per cui quello che gli interessa è esclusivamente vedere se esegui le sue indicazioni, secondo i tempi e i modi che ti dà lui.”
Un'altra caratteristica del leader, che disturba particolarmente, è quella di voler apparire rispetto all’esterno come l’artefice di quanto viene portato avanti da alcune persone del gruppo.
“Quando ci troviamo in contesti pubblici – mi ha raccontato una dipendente di una società – non c’è mai una volta che il nostro dirigente faccia parlare anche il responsabile di progetto. Compare sempre e solo lui. Noi siamo anonimi.”
Un dirigente efficace è fondamentalmente un leader di servizio, capace cioè di centrarsi contemporaneamente sugli obiettivi di successo aziendale e sulle persone con cui lavora.
5- La comunicazione
Una buona qualità di vita lavorativa dipende molto dalla comunicazione fra colleghi e fra il dirigente e i vari membri del gruppo.
“Ho cambiato lavoro – mi ha detto un dirigente – sia perché l’ho potuto fare, sia perché ho sempre cercato ambienti in cui non solo occuparmi di quello che m’interessava, ma anche stare bene con le altre persone. Non sempre è stato facile. Ciò che mi ha disturbato di più è stata l’incapacità di alcuni di accettare il confronto. Molte volte si offendevano, se provavo a dire qualcosa di diverso rispetto a quello che alcuni affermavano. Vivevano l’intervento non come un possibile contributo a quello che si stava facendo. Dovevano difendere le loro idee come se fossero delle parti di loro stessi. Per me, invece, ogni mia convinzione del momento è valida fino a che qualche nuovo dato o affermazione altrui mi fa vedere una prospettiva migliore. Io ragiono un po’ come Galileo. Tutto ciò che definisco non è un assoluto, ma bensì soggetto a nuove evidenze!”
Come una vastissima letteratura specifica indica, un buon livello di comunicazione passa dalla progressiva padronanza di uno stile comunicativo assertivo, vale a dire dalla capacità di esprimere il proprio punto di vista e le proprie ragioni, saper ascoltare quelle altrui e quindi attivare civili e costruttivi confronti, accettare punti di vista diversi, critiche costruttive e mediare. Tutto ciò è molto meno facile di quanto si creda, perché si tratta di tradurre nella quotidianità lavorativa i principi fondanti della convivenza democratica e, per fare questo, occorre non solo avere la padronanza di alcune abilità, ma anche la capacità di rendersi conto di quando e perché si rischia di essere aggressivi o passivi e di capire come poter attivare una modalità assertiva.
6- Il clima
Un leader efficace è attento non solo agli obiettivi raggiunti, ma anche al clima presente nel gruppo.
“Sto cercando un nuovo lavoro – mi ha detto una paziente – perché sono profondamente demotivata. M’impegno, concludo, ma con molto sforzo perché il clima all’interno del gruppo è freddo, se non ostile. Nessuno ti dice niente se fai qualcosa di positivo, ma il minimo errore è subito enfatizzato. C’è una competizione feroce e mai niente è stato fatto per ridurla.”
“Ho dovuto lasciare il mio lavoro – mi ha detto una giovane impiegata – e finalmente ho trovato un’alternativa, perché la mattina, appena entravo, avvertivo solo gelo. Ognuno preso da sé, quasi non ti salutava. Se c’èra da concordare dei cambi di orario, subito s’irritavano. Negli ultimi tempi mi veniva male allo stomaco all’idea di andare a lavorare.”
In ogni contesto il benessere organizzativo è, invece, sempre correlato con il clima amichevole, il supporto reciproco, collaborativo e, come ha detto in un corso una bancaria, – quello che fa la differenza è il modo di fare dei tuoi colleghi e del tuo dirigente. Se le persone sono competitive, aggressive, per niente amichevoli, è difficile lavorare tranquilla.”
La vita in un gruppo di lavoro non è fatta solo da obiettivi da realizzare, da azioni specifiche e metodologie adottate, è anche un susseguirsi di momenti di vita in cui uno si sente a suo agio, oppure avverte stati di malessere. Chiaramente questo può dipendere in parte dalla condizione generale di una persona, dalle sue difficoltà extralavorative, ma anche da una scarsa attenzione da parte di tutti, e non solo del leader, al clima, alla comunicazione e alla crescita di ognuno.
Occorrono un leader che valorizzi e responsabilizzi e dei member che riconoscano il valore di questo approccio e contribuiscano a creare un rapporto di fiducia reciproca e il senso del “noi” con tanto di valori, norme, stili di pensiero e di comportamento. Se la mancanza di un buon clima è uno degli indicatori di rischio SLC, il riconoscimento dei ruoli, il calore, il sostegno, l’apertura e il feedback attestano la presenza di un buon clima.
7- Lo sviluppo
Un gruppo di lavoro si forma, si dà delle regole e diventa efficiente anche quando ognuno in qualche modo cresce e riesce ad esprimere le proprie potenzialità.
“Se io ho fatto carriera e sono cresciuto – mi ha comunicato un dirigente – è perché ho capito ben presto che dovevo lasciare i posti di lavoro dove non ti permettono di esprimere a pieno le tue potenzialità.”
Se non c’è un’evoluzione a livello di gruppo e individuale, vi è in qualche modo una perdita. Le organizzazioni per crescere hanno un’esigenza d’innovazione e superamento delle resistenze ai necessari cambiamenti. Tutto ciò è possibile, se le persone sono abituate a continui processi di apprendimento e alla soddisfazione nel sentirsi soggetti attivi degli obiettivi in cui sono coinvolti. Questo richiede un impegno sinergico e sempre più consapevole fra l’organizzazione, il leader e i membri di ogni gruppo di lavoro.
Conclusioni
Buona parte del benessere nell’ambiente lavorativo dipende da come le persone vivono all’interno dei gruppi di lavoro. Per chi si occupa di benessere organizzativo e prevenzione dello SLC uno dei compiti primari è l’attenzione alla soddisfazione individuale e non solo ai risultati raggiunti.
Per chi dirige diviene anche strategico per il successo aziendale, oltre che rispettoso della salute organizzativa, occuparsi della qualità di benessere e soddisfazione all’interno dei vari gruppi di lavoro. Un compito necessario, anche se impegnativo.
“D’altro canto, lo scenario attuale delle organizzazioni di lavoro e delle istituzioni pubbliche richiede a chi si occupa di gruppi un grande impegno, volto a trovare la strada della cooperazione nella contraddizione tra la gestione di sempre più ampie differenze individuali e di sempre più vaste tendenze all’uniformità e al conformismo.”[3]
Bibliografia
Avallone F., Paplomatas A. (2005) Salute Organizzativa. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Fraccaroli F., Balducci C. (2011) Stress e rischi psicosociali nelle organizzazioni. Bologna: Il Mulino.
Quaglino G.P., Casagrande S., Castellano A. (1992). Gruppo di lavoro. Lavoro di gruppo. Milano: Raffaello Cortina
[1] Avallone F., Paplomatas A. (2005) Salute Organizzativa. Milano: Raffaello Cortina Editore. Pag. 123.
[2] Fraccaroli F., Balducci C. (2011) Stress e rischi psicosociali nelle organizzazioni. Bologna: Il Mulino. Pag. 102 - 103
[3] Quaglino G.P., Casagrande S., Castellano A. (1992). Gruppo di lavoro. Lavoro di gruppo. Milano: Raffaello Cortina Editore. pag. 9.
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