Conviventi di fatto, assegnazione della casa famigliare

Diversamente rispetto a quanto previsto per le unioni civili tra persone dello stesso sesso, per questo tipo di convivenze la legge non impone un onere di registrazione presso i competenti uffici del Comune. Alla luce di ciò si può affermare che i diritti e i doveri previsti nella nuova legge nascono automaticamente, per il semplice fatto di trovarsi in una condizione di convivenza di fatto stabile, da intendersi come dimora abituale nello stesso Comune. Dette norme si applicano anche a tutte le convivenze di fatto già in essere al momento della entrata in vigore della legge.
Per i conviventi di fatto le dichiarazioni anagrafiche hanno solo un valore probatorio in merito all’esistenza e alla durata della convivenza, e la stabilità della relazione dovrà accertata in base alle norme del Regolamento Anagrafico della Popolazione Residente; nella definizione di "famiglia anagrafica" sono ricomprese, infatti, anche le persone legate da vincoli affettivi.
In caso di contestazione, chi vi abbia interesse (ad esempio il convivente interessato a restare nella casa) potrà provare davanti al Giudice che vi è stata la convivenza e quanto essa sia durata, anche attraverso dichiarazioni di testimoni.
Per quanto riguarda l’assegnazione della casa famigliare, ovvero dell’immobile all’interno del quale la famiglia manteneva la propria residenza principale, la nuova legge non costituisce l’unico riferimento normativo per i conviventi, ma rappresenta un’espansione della disciplina già esistente a riguardo, anche alla luce delle decisioni giurisprudenziali.
Con riguardo, infatti, al caso della coppia di conviventi di cui uno solo dei partner sia proprietario dell’immobile adibito a residenza familiare, la legge (comma 42), nella sola ipotesi del decesso del convivente proprietario (ma che potrebbe ritenersi applicabile anche nel caso di separazione), prevede una riserva di abitazione del convivente superstite della durata di:
- due anni, o di un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non superiore ai cinque anni;
- non meno di tre anni, se nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente.
Tali scadenze devono intendersi applicabili automaticamente, senza necessariamente ricorrere al Giudice per entrare nella disponibilità del bene. Il diritto alla riserva di abitazione viene meno qualora il convivente cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza, oppure qualora contragga matrimonio, un’unione civile o una nuova convivenza di fatto.
Oltretutto, la legge fa salvo il caso in cui il Giudice - in presenza di figli comuni - abbia disposto l’assegnazione della casa famigliare al convivente a seguito della separazione dei genitori; in tale situazione, infatti, il diritto di godimento sull’immobile cesserà solo una volta che la prole, ancorché maggiorenne, abbia raggiunto l’autosufficienza economica.
Orbene, dette norme, se pur riferite al caso di morte del convivente proprietario, potrebbero ritenersi applicabili anche in caso di separazione del convivente, in quanto non è la legge Cirinnà a stabilire se e per quanto tempo dopo la fine della convivenza un partner debba abitare, insieme al figlio, nell’immobile scelto come residenza famigliare, ma lo stesso codice civile. Stante la completa parificazione dei figli legittimi e non, la normativa in vigore stabilisce quali debbano essere - in caso di separazione dei genitori - i criteri per l’assegnazione della casa familiare, non necessariamente definita come ‘casa coniugale’.
Detti criteri tendono sempre a porre in primo piano l’interesse dei figli a permanere nell’habitat domestico nel quale sono cresciuti e, specie in caso di figli piccoli privilegiano (anche se questo non costituisce un principio valevole in assoluto) la c.d. maternal preference, cioè la collocazione dei minori - specie se ancora in tenera età - presso la madre.
Si sottolinea, infine, che sarà il Giudice a decidere a chi - la madre o il padre a seconda della situazione personale ed economica di ciascuno - è opportuno affidare la casa nel maggiore interesse dei figli minori, a prescindere dal valore dell’abitazione e dal fatto che questa appartenesse all’uno o all’altro genitore. Anche in questo caso, dunque, la normativa è similare a quella che viene seguita qualora si separi una coppia sposata.
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