La responsabilità medica della struttura per infezione da Covid-19

La struttura sanitaria è responsabile se il paziente muore presso la Struttura o ha un aggravamento delle sue patologie (ad esempio difficoltà di respirazione)?
L’ipotesi non è peregrina in quanto numerosissimi sono stati i casi di infezione generatasi internamente alla struttura medica ai quali queste ultime non erano state in grado di opporsi efficacemente con gli esiti infausti che la cronaca giornalistica ha segnalato costantemente, soprattutto nel gennaio- febbraio 2020.
Occorre però fare un distinguo tra il primo periodo di contagio da SARS-CoV2 che fu diagnosticato a Lodi in data 20 febbraio 2020 e presso la Rianimazione del Policlinico San Matteo di Pavia nella notte tra il 21 e il 22 febbraio dello stesso anno e il periodo successivo quando erano già state emanate linee guida per la difesa del paziente per tutte le strutture mediche d’Italia.
Nella primissima fase il contagio da Covid-19 sorto in Ospedale e quindi nosocomiale (prima ondata pandemica) in cui non erano ben chiare nemmeno le modalità di diffusione di questo virus, conseguentemente, le possibilità di prevenire la diffusione del virus nell’ambito di un macrosistema complesso quale è una struttura ospedaliera, erano all’epoca dei fatti molto basse anche se non è escluso che, per taluni casi, fosse possibile accollare la responsabilità dell’evento alla struttura.
Difatti per prevenire, occorre conoscere “l’avversario”, perché diversamente non si può né prevenirlo né combatterlo.
Da fine marzo 2020, allorché la gravità e le modalità di diffusione del virus erano ormai evidenti a tutti quanti direttamente coinvolti, non ha invece fondamento invocare l’imprevedibilità del contagio da Coronavirus, in quanto le strutture mediche erano in grado di essere attrezzate e quindi di gestire meglio l’evento.
E’ d’uopo sottolineare che la Legge 8 marzo 2017, nr. 24, c.d. Gelli-Bianco, art. 7 c.1, prevede la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria affermando che: “la struttura sanitaria o sociosanitaria che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose e colpose” (responsabilità contrattuale).
Per respingere l’addebito, la struttura sanitaria deve, quindi, dimostrare che il danno subito dal paziente non è riconducibile alle sue responsabilità in quanto si è attenuta con i propri dipendenti e collaboratori a misure di prevenzione idonee documentabili e alle buone pratiche in materia di malattie gravemente contagiose.
Di contro occorre, invece, dimostrare sempre che il comportamento omissivo della struttura ha cagionato il danno al paziente.
La prova, per il legale che assiste il cliente o i parenti del deceduto per Covid-19, consiste quindi in questa dimostrazione più difficoltosa, anche se non impossibile per la prima ondata pandemica, nel periodo sopra descritto.
Se, in altri termini, la struttura è in grado di dimostrare di avere previsto e applicato compiutamente, in forma ufficiale o comunque documentabile, la realizzazione di misure di prevenzione e isolamento conformi ai protocolli e alle indicazioni specifiche e in via più generale alle buone pratiche assistenziali in materia di malattie gravemente contagiose, allora ha soddisfatto le obbligazioni derivanti dal rapporto di spedalità. Se però ai dipendenti può essere imputata una omissione in proposito, allora la responsabilità diretta è in capo a loro e la struttura può essere chiamata a rispondere.
In caso di primissima pandemia, l’avvocato dovrà fare un poco da investigatore e riuscire a trovare che, causa Covid-19, si poteva anche in assenza di direttive precise con un pizzico, perché no di fortuna e, in ogni caso di abilità professionale, capire con quale medicina o presidio medico vincere la infezione a favore della persona in cura.
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