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Il duplice ciclo causale nella responsabilità medica


Il creditore deve provare il nesso causale fra patologia e condotta del medico, il medico deve provare che una causa imprevedibile ha reso impossibile la prestazione
Il duplice ciclo causale nella responsabilità medica

In tema di nesso causale e suo accertamento in materia di responsabilità civile, da sempre dottrina e giurisprudenza sostengono che l’accertamento del nesso eziologico tra condotta del sanitario ed evento dannoso deve essere condotto con parametri differenziati  a seconda che si tratti di valutare un illecito civile o penale, vista l’estrema diversità dei presupposti della responsabilità civile e di quella penale.

Come è noto, lo scrutinio del nesso causale in materia civile segue la regola del “più probabile che non” (Cass. 581/2008). Alla medesima conclusione è pervenuta anche la Corte di Giustizia che conferma che, in ambito civile, la causalità non può che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE 295/2006).
 
Su tale argomento si è recentemente pronunciata  la Corte di Cassazione che, sancendo il principio per cui “nei giudizi risarcitori da responsabilità sanitaria, si delinea un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle…mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)".

Nel caso di specie, un uomo era deceduto a seguito d’ischemia poco dopo la visita effettuata da una Guardia Medica che lo aveva “rinviato al domicilio” “previa somministrazione in via intramuscolare, di un antidolorifico, con prescrizione di un controllo dal medico curante”.
Pertanto, i congiunti convenivano in giudizio civile la AULSS competente affinché la stessa fosse riconosciuta responsabile del decesso del loro congiunto.

Accolta dal giudice di primo grado la domanda risarcitoria, il giudice dell’appello escludeva la responsabilità dell'azienda sanitaria sostenendo che "non vi è riscontro probatorio circa la presenza di personale di PS pronto ad intervenire immediatamente con il defibrillatore e, soprattutto, non è dato sapere se il suo utilizzo "sarebbe stato salvifico".

Ma, per i congiunti del defunto “poiché la morte fu causata da un problema cardiaco e l'esecuzione degli esami omessi avrebbe consentito una diagnosi tempestiva e permesso di monitorare la situazione, evitando la morte per ischemia", sarebbe spettato alla convenuta "provare che la morte sarebbe egualmente avvenuta oppure che la sua causa andava rinvenuta in altro evento imprevisto e/o imprevedibile". Di qui, dunque, una violazione del principio della vicinanza della prova che, se correttamente applicato, avrebbe imposto alla convenuta - a fronte delle risultanze della perizia medico-legale - di fornire gli elementi necessari per ritenere che la causa della morte del paziente andasse ricercata in un evento impossibile da prevedere.

La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, in applicazione del principio di diritto ut supra delineato, ha precisato che "la causa incognita resta a carico dell'attore relativamente all'evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere…solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l'onere di provare che l'inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall'attore, è stato determinato da causa non imputabile".

Pertanto, la sentenza impugnata ha operato un’indebita "segmentazione" della complessiva condotta omissiva della struttura sanitaria, incentrando la propria valutazione esclusivamente sull'ultimo anello della catena di omissioni “che andavano invece tutte adeguatamente indagate”.

Una ricostruzione non "atomistica" dell'intera vicenda avrebbe evidenziato, invero, che la tempestiva sottoposizione dell’uomo ad accertamenti più approfonditi - già nella fase iniziale, o comunque in quella intermedia, dell'intera catena di accadimenti - avrebbe potuto scongiurarne il decesso.

Insomma, per ritenere il sanitario responsabile del pregiudizio occorso è necessario che il danneggiato fornisca la prova, a suo carico, che esso sia legato da nesso di derivazione causale alla condotta del medico; successivamente, è possibile rivolgersi in direzione della c.d. dimensione dell’illecito costituita dal suo elemento soggettivo, laddove sarà il debitore della prestazione (struttura sanitaria/medico) a dover dare la prova che  l’inadempimento o il ritardo  è stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante in un contesto in cui la causa attiene alla non imputabilità della impossibilità ad adempiere che si colloca nell’ambito delle cause estintive  dell’obbligazione, costituenti temi di prova della parte debitrice e che concerne un ciclo causale distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato od inesatto.

Aderiscono alla decisione in commento molte altre pronunce adottate in materia come il gruppo delle quattro sentenze pubblicate il 30/10/2018 recanti i numeri 27455, 27446, 27447, 27449 , la sentenza  n° 24533/2018,  l’ordinanza della III Sezione Civile n° 29853/2018  le due pronunce del 30.11.18 n. 30998 e 04.12.2018 n. 31245, e Cass. 18392/2017.

 

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