La responsabilità medica da Covid

Ogni Paese, in ordine sparso, ha adottato dai primi mesi dello scorso anno le misure che riteneva più opportune a salvaguardia dei propri cittadini che, increduli rispetto a quanto stava accadendo, hanno dovuto fronteggiare l’emergenza sanitaria chiudendosi dapprima nelle loro abitazioni per evitare di prendere questa orrenda malattia e poi, piano piano, sono tornati parzialmente alle loro attività usuali, pur colpite da lutti gravissimi all’interno del loro nucleo familiare.
Gli ospedali di tutto il mondo si sono riempiti di malati in emergenza e i medici hanno dovuto lavorare, soprattutto all’inizio di questa catastrofe, con le poche conoscenze che avevano, di giorno e di notte, per salvare più vite umane possibili, anche se gravissime sono state le perdite umane dovute al Covid-19 che ha colpito tutti i ceti sociali, senza distinzione.
Per fortuna, passato un anno, la scienza ha fatto progressi enormi per la cura della malattia a cominciare dai vaccini che vengono inoculati alle persone più fragili e agli operatori sanitari, volontari, insegnanti e così via e hanno segnato un arresto della malattia significativo.
Tuttavia, si sa, quando cala la tensione le persone cominciano a farsi domande se quello che sta capitando ha come causa la negligenza e l’imperizia altrui. Ad esempio in ospedale le persone che hanno avuto decessi in famiglia si chiedono se i loro familiari potessero essere salvati o meno dai medici .
Le questioni tecniche che vengono affrontate attualmente sono per lo più se una condotta diversa del medico avrebbe preservato loro la vita. L’Art 2236 cc dispone che «Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici specifici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo e colpa grave».
Rientrano nella colpa grave (e a maggior ragione nel dolo) quei comportamenti medici che si allontanano volutamente o meno dalle linee guida dettate dall’Istituto Superiore della Sanità. Se quindi il medico non si è attenuto a tali linee guida usando farmaci non autorizzati, anche nell’intento di salvare vite umane è passibile di responsabilità.
Questo tema potrebbe acquisire ulteriore interesse proprio a causa della diffusione dell’epidemia da coronavirus: è ormai noto che l’ampia diffusione del virus sia avvenuta proprio nelle strutture ospedaliere, e ciò apre inevitabilmente dibattiti sull’adeguatezza degli strumenti preesistenti e finalizzati a prevenire o fronteggiare eventi simili, nonché sull’esigibilità di alcune condotte da parte della struttura sanitaria stessa [11].
Quanto detto è essenziale per il nostro specifico tema di approfondimento. Come accennato la legge Gelli, che ha profondamente riformato la materia della responsabilità sanitaria, ha sancito in capo alla struttura sanitaria una responsabilità di tipo contrattuale: scelta alla cui base si pone l’esigenza di garantire le migliori cure possibili anche mediante un’attenzione particolare alla gestione del rischio. A livello sostanziale e processuale, ciò ha ricadute pratiche notevoli e che certamente meglio permettono di comprendere proprio la centralità del tema del risk management.
La principale conseguenza dell’inquadramento della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale riguarda certamente il profilo dell’onere probatorio. Infatti, all’attore danneggiato spetterà solo la prova dell’esistenza del rapporto con la struttura (contratto o contatto sociale), nonché allegare l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e l’inadempimento del debitore astrattamente idoneo a cagionare il danno lamentato. Con riferimento al caso delle infezioni nosocomiali, si dovrà innanzitutto verificare se l’infezione sia ricollegabile a quelle qualificate come nosocomiali. La prova sarà certamente agevole laddove, ad esempio, si dimostrasse che anche altri pazienti hanno contratto una simile infezione nello stesso periodo. Nel caso delle infezioni da coronavirus, ciò sarebbe certamente agevole laddove, ad esempio, il soggetto infettato fosse da lungo tempo ricoverato in ospedale, rappresentando questo quindi l’unico possibile luogo di infezione.
Sarà invece onere della struttura provare il corretto e diligente adempimento, nonché la riconducibilità del danno a causa non imputabile ad essa [12], onere sicuramente complesso in caso di infezioni ospedaliere. Questo innanzitutto a causa delle caratteristiche proprie delle infezioni nosocomiali, che per loro natura rendono quasi impossibile risalire all’effettivo responsabile dell’infezione. La struttura sanitaria in tal senso dovrà dimostrare di aver adottato un modello organizzativo finalizzato ad evitare o ridurre il rischio di insorgenza di questo tipo di infezioni, ovvero dimostrare la loro inevitabilità.
Sul punto, la giurisprudenza e la ratio della riforma stessa giocano un ruolo decisivo. L’adozione di specifici modelli organizzativi finalizzati alla riduzione dei rischi, che pone così rilevanza alla prevenzione e costituisce la prova liberatoria del diligente adempimento delle obbligazioni scaturenti dal contratto atipico di spedalità, pone al centro del sistema il tema della gestione del rischio ospedaliero. Modelli gestionali che dovranno essere stati adottati nel caso concreto oggetto di giudizio [13] e che dovranno coprire l’intera durata del ricovero ospedaliero, non solo quella strettamente intesa dell’operazione. La giurisprudenza sul punto ha talvolta riconosciuto la sussistenza di questo diligente adempimento, ricollegando l’infezione a casi prevedibili ma non prevenibili di infezioni ospedaliere [14].
In generale però, si è evidenziato da più parti una decisa tendenza fino a tempi recenti ad oggettivizzare la responsabilità della struttura. Nell’attuale sistema del diritto civile, incentrato sul bilanciamento di interessi e sulla socializzazione dei rischi [15] e delle attività potenzialmente dannose [16], e non necessariamente sulla colpa, ciò è coerente con una migliore gestione del rischio e con la sua distribuzione in capo a chi immette nel sistema il rischio stesso ovvero lo gestisce, agevolando così anche la posizione del soggetto che doveva essere protetto.
Ciò nel senso quel percorso evolutivo che ha portato a dire che “Le numerose esemplificazioni dei caratteri della responsabilità a rilevanza sociale, da un lato, ed il ripensamento, se non addirittura il dissolvimento, di alcune categorie tradizionali, sul piano sistematico, dall’altro, confermano il progressivo, irreversibile restringimento della “forbice”, un tempo ampia, tra illecito extracontrattuale e contrattuale, non soltanto nella direzione del cumulo, ormai pacificamente ammesso, ma anche nelle sembianze sempre più simili delle due fattispecie” [17].
Tale conclusione è coerente anche con le riflessioni poste da autorevole dottrina in tema di analisi economica del diritto [18] e con quanto fatto già in altri settori, quali quello dei consumatori. La tendenza ad oggettivizzare il rischio da un lato incentiva i tentativi di migliorare la qualità delle prestazioni erogate e l’organizzazione dell’intera struttura [19]; dall’altro pone rilievo sulla valorizzazione del principio di precauzione, che in tali contesti gioca un ruolo molto importante.
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