Il Condomino non può accorpare al suo appartamento parti comuni

“Quando la cosa di proprietà collettiva è sottratta al godimento altrui, risulta necessario il consenso negoziale di tutti in forma scritta perché non si rientra nell’ambito dell’uso frazionato consentito”.
Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con ordinanza n. 18929 depositata l’11 settembre scorso sul ricorso presentato dalla proprietaria di un appartamento che di sua spontanea iniziativa aveva inglobato al suo immobile il vano scale.
In primo grado la condomina era stata condannata al ripristino dello stato dei luoghi delle parti comuni ed al pagamento dell’indennità di cui all’art. 1127 c.c. in relazione al bagno e al ripostiglio realizzati sul lastrico solare.
In appello la Corte territoriale aveva confermato la condanna della condomina al ripristino dello stato dei luoghi delle parti comuni perché l’accorpamento aveva di fatto impedito agli altri proprietari di usare il vano scale, non avendo rilievo il fatto che non avessero interesse a salire oltre il pianerottolo dell’ultimo piano perché l’accesso alla terrazza non era libero. Per il resto, la Corte aveva riformato la decisione del Giudice di primo grado riducendo l’indennità a carico della condomina.
Avverso tale ultima sentenza la condomina aveva deciso di proporre ricorso in Cassazione, sostenendo – in particolare - che il suo intervento non aveva alterato la destinazione della cosa comune.
Secondo la Suprema Corte la tesi della ricorrente, secondo la quale l’inglobare il vano scale ed il pianerottolo di accesso alla propria abitazione non violava l’art. 1102 c.c., era del tutto destituita di fondamento.
Ciò in quanto, ad avviso dei Giudici di legittimità, al caso di specie deve applicarsi il seguente principio di diritto secondo cui “in tema di comunione, l’uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l’utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l’utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Pertanto, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell’ambito dell’uso frazionato consentito, ma nell’appropriazione di parte della cosa comune , per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che – trattandosi di beni immobili – deve essere espresso in forma scritta ad substantiam”.
Quanto poi all’ulteriore doglianza, riferita al consenso prestato dagli altri condomini ai lavori eseguiti dalla condomina, la Cassazione, in accoglimento del motivo di ricorso, ha chiarito che “il consenso verbalmente prestato dal proprietario di un fondo all’esecuzione, da parte del proprietario confinante, di opere che si risolvano in menomazioni di carattere reale per il suo immobile non determina la nascita della servitù, per la mancanza del requisito scritto, richiesto dall’art. 1350 c.c. n. 4; ma, la prestazione e la successiva revoca del consenso, in relazione alle circostanze in cui si sono verificate, possono concretizzare un fatto illecito, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per il quale è sufficiente dal punto di vista soggettivo la colpa, senza che sia necessaria la fraudolenza del comportamento di chi aveva prestato e poi revocato il consenso stesso”.
Sulla scorta di tale principio, dunque, la Cassazione ha rinviato alla Corte di Appello, la quale dovrà stabilire se la condotta dei condomini di revoca del consenso prestato allo svolgimento dei lavori dopo la loro esecuzione possa costituire un illecito extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c.
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