Accesso in abitazioni private
Questo perché la disciplina degli accessi dedicata all'accertamento dell'IVA, contenuta nell'art. 52 D.P.R. n. 633/1972 e successive modifiche ed integrazioni, cui finisce per rimandare il doppio rinvio ex art. 53 bis D.P.R. n. 131 cit. e 33, comma 1, D.P.R. n. 600/1973 e successive modifiche ed integrazioni, non si presenta all'evidenza del tutto compatibile con la disciplina dell'accertamento dell’imposta di registro.
In particolare, perché soggetti all'imposta di registro non sono sempre e soltanto imprenditori e professionisti cui specificatamente si rivolge, invece, la disciplina degli accessi contenuta nell’art. 52 D.P.R. n. 633 cit..
Sono quindi pensabili due antitetiche soluzioni.
Ritenere possibili gli accessi predisposti all'accertamento dell'imposta di registro, soltanto nei confronti di imprese e professionisti aventi partita IVA, come in effetti sostenuto al 2.2, circolare ministeriale 6 febbraio 2007 n. 6/E.
Oppure verificare se e in quale misura l'art. 52 D.P.R. n. 633 cit. contenga disposizioni compatibili con un accesso predisposto all'accertamento dell'imposta di registro nei confronti di chi non è imprenditore o professionista.
La Corte di Cassazione, che a quanto consta si è trovata per la prima volta ad affrontare la delicata questione, ritiene che debba essere innanzitutto valorizzata la chiara intenzione del legislatore di estendere i poteri di accesso anche nei confronti di chi non è imprenditore o professionista soggetto IVA (Cassazione - Sez. Tributaria - sentenza n. 13145 depositata il 24 giugno 2016).
Un'intenzione che per esempio emerge con una qualche certezza dalla considerazione che già l'art. 51, comma 4, D.P.R. n. 131 cit. ammetteva gli accessi in azienda, con la conseguente illazione secondo cui la aggiuntiva previsione di cui all'art. 53 bis D.P.R. n. 131 cit. non può che essere spiegata con la volontà legislativa di generalizzare il potere di accesso in discussione.
A tal riguardo, l'unica disposizione che si presenta compatibile con l'accesso strumentale all'accertamento dell'imposta di registro nei confronti di chi non è soggetto IVA, deve essere rinvenuta nell'art. 52, comma 2, D.P.R. n. 633 cit. che permette di effettuare accessi anche in private abitazioni «previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni» fiscali.
Con riguardo al denunciato vizio motivazionale i contribuenti ritenevano inoltre incoerente il riferimento fatto dalla CTR ai gravi indizi di violazione delle norme fiscali esposti nell'autorizzazione data dalla competente Procura della Repubblica, questo perché i gravi indizi in parola erano soltanto richiesti dall'art. 52, comma 2, D.P.R. n. 633 cit. che disciplina l'accesso a «locali» diversi da quelli dove viene svolta l'impresa o la professione e, quindi, per esempio nei «locali» soltanto destinati a civile abitazione mentre invece la CTR aveva considerato applicabile alla fattispecie esclusivamente l'art. 52, comma 1, D.P.R. n. 633 cit.
Il motivo è stato dichiarato giustamente inammissibile perché in realtà quello che viene rimproverato alla CTR non è l'affermazione di esistenza o di inesistenza dì un fatto controverso e decisivo, avvenuta senza una sufficiente spiegazione oppure con una spiegazione illogica.
Bensì si rimprovera alla CTR una motivazione giuridica insufficiente o contraddittoria. Sennonché la inidonea motivazione giuridica è rilevante solamente sotto il profilo della violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., tanto è vero che, se la decisione è conforme a diritto, la motivazione della sentenza deve essere dalla Corte semplicemente integrata o corretta ai sensi dell'art. 384, comma 4, c.p.c. (Cass. sez. trib. n. 5123 del 2012; Cass. sez. lav. n. 16640 del 2005).
Con il secondo motivo di ricorso rubricato «Violazione dell'art. 1, comma 1, Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 e del d.m. 2 agosto 1969 in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.», i contribuenti deducevano che la CTR era incorsa nella violazione delle norme laddove aveva ritenuto di «includere nel calcolo della superficie cosiddetta utile vani che, in realtà, non erano abitabili secondo la normativa statale e locale vigente», circostanza quella della «non abitabilità» dei locali in discussione che secondo i contribuenti non sarebbe stata «di per sé contestata dall'Amministrazione resistente» e che inoltre sarebbe anche stata <
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