L’esercizio delle funzioni essenziali ed indifferibili della P.A.
La necessità di incrementare le garanzie degli individui che si trovino in una posizione di soggezione rispetto ad un potere amministrativo, accompagnata all’evoluzione della tutela nei confronti dei poteri privati, ha fornito una manifesta riprova della relatività giuridica delle situazioni soggettive, particolarmente sensibili ai cambiamenti che investono il senso del significato assunto dalla loro speciale protezione[1].
Nel corso del tempo, si è assistito al passaggio da un sistema improntato sulla logica del potere ad un sistema incentrato sul rapporto, in cui “la tutela non viene filtrata dall’interesse pubblico e non si realizza attraverso la via indiretta delle norme di azione”[2]. Ne è derivato l’utilizzo, come regole di condotta, di principi di diritto comune per sostenere le ragioni del privato, quali la buona fede e il legittimo affidamento, e di principi già specifici dell’agire amministrativo, quali la trasparenza e l’imparzialità.
In ragione dello statuto costituzionale dell’amministrazione, che implica un carattere pubblico del potere amministrativo e, quindi, un esempio caratteristico di tutela avverso il suo esercizio, la funzionalizzazione dell’attività amministrativa si riflette sul provvedimento, la cui validità è, conseguentemente, condizionata dall’interesse pubblico.
Con il canone della buona fede, si è andata imponendosi l’idea che la correttezza investisse anche l’amministrazione pubblica nel suo agire ‘iure privatorum’[3] e che fosse applicabile solamente ai rapporti giuridici paritari, assorbendosi nell’interesse pubblico. Il principio della buona fede è direttamente connesso a quello di legalità, poiché dal dovere di buona fede in capo all’amministrazione pubblica si desume l’unitarietà sostanziale dell’ordinamento giuridico[4] e l’imparzialità amministrativa.
Quest’ultima, a sua volta, risolvendosi nel dovere di buona fede, viene a coincidere con il principio di tutela dell’affidamento, “in base al quale, una volta che un comportamento del soggetto sia stato assunto, lo obbliga a conformare l’ulteriore suo comportamento a ciò che esso ha voluto essere secondo verità e fedeltà”[5].
In definitiva, la buona fede è vista quale principio regolatore dei rapporti di collaborazione perché riferisce “la conformità del comportamento alla coscienza, la sua verità e sincerità”[6]. Si tratta, soprattutto, di coscienziosità in rapporto non tanto allo stato oggettivo dei fatti, quanto a quello delle conoscenze effettive che il soggetto ha assunto o che avrebbe dovuto assumere comportandosi secondo diligenza.
La buona fede, quindi, nella sua dimensione oggettiva, si applica ad ogni relazione fra soggetti e, nei confronti di un soggetto imparziale come l’amministrazione, opera in maggior misura in quanto si pone fra la dimensione della verità e quella della giustizia.
Pertanto, la stessa presiede ad ogni decisione amministrativa e fa scaturire l’obbligo di bilanciamento dell’interesse pubblico con gli interessi connessi all’affidamento[7].
La tutela del legittimo affidamento non si traduce in un obbligo generico di agire secondo ‘strictu jus’ o nel divieto di ‘venire contra factum proprium’, ma si identifica nella valutazione degli interessi collegati al medesimo affidamento creatosi da un comportamento precedente. Il canone dell’affidamento, così, non si costruisce quale principio della funzione procedimentale, bensì come regola che integra la decisione amministrativa. Esso opera ogniqualvolta un terzo entra in contatto con la pubblica amministrazione, come nel caso in cui questi voglia ottenere da chi gli si propone come funzionario pubblico un permesso ad eseguire una specificata attività e, solo dopo aver operato convinto, in buona fede, di averlo ottenuto, scopre che quel funzionario ha, in maniera illegittima, ricoperto quella funzione.
L’urgenza di una nuova dimensione relazionale dell’amministrazione, nonché di ricerca di un “assetto teorico idoneo a spiegare il dato fenomenico e metagiuridico rappresentato dal cambiamento qualitativo e quantitativo delle relazioni che si instaurano tra cittadino e apparato burocratico”[8], porta ad ammettere non soltanto il bisogno di una prospettiva relazionale dell’amministrazione pubblica, ma anche e soprattutto la valorizzazione della protezione della fiducia dei cittadini nei confronti della medesima. Si pensi, specificamente, all’istituto giuridico del funzionario di fatto.
Il funzionario di fatto identifica una figura creata appositamente dalla dottrina per l’esercizio dell’azione amministrativa da parte di un soggetto non avente la connessa legittimazione a compiere detta azione. La cd. teoria del funzionario di fatto implica l’ammettere come legittimi gli atti dal medesimo posti in essere qualora “si tratti di esercizio di funzioni essenziali e/o indifferibili, che per loro natura riguardino i terzi con efficacia immediata e diretta”[9]. Ne deriva che tale teoria può essere invocata solamente a vantaggio dei terzi e non a vantaggio dell’amministrazione procedente, assolvendo alla opportunità di salvaguardia della continuità dell’azione amministrativa e, al contempo, al bisogno di tutela dell’affidamento dell’amministrato che, senza colpa ed in buona fede, ha considerato valido l’esercizio della funzione pubblica.
Si tratta, per meglio specificare, di un caso di acompetenza sia perché l’atto amministrativo o l’attività si esplica mediante un soggetto privo della qualità di organo, sia perché l’atto di investitura non esiste, sia ancora perché il titolo è inefficace o viziato.
Il regime degli atti posti in essere dal funzionario di fatto risulta disomogeneo, tanto che, per la sua analisi, bisogna riferire della figura giuridica dell’usurpatore di pubbliche funzioni[10], di quella dell’inesistenza dell’atto di investitura o della sua nullità, nonché di quella dell’ingerenza autorizzata, ossia dell’investitura formale in seguito retroattivamente caducata perché affetta da illegittimità.
Nella prima di queste ipotesi vi è carenza di potere in astratto, perché manca totalmente il titolo di investitura; pertanto, gli atti adottati dall’usurpatore di pubbliche funzioni sono da considerarsi nulli perché non emanati da un organo amministrativo: ciò prefigura un illecito punibile penalmente. Tuttavia, bisogna effettuare una distinzione fra il caso in cui manchi originariamente il titolo ed il caso in cui sopravvenga la carenza dello stesso perché il titolo, ab initio ritenuto valido, risulti viziato. Si è ritenuto, qui, che “sia che la legittimazione sia carente per vizio originario sia che per vizio sopravvenuto, gli atti emanati dal funzionario di fatto sarebbero nulli per carenza di potere in astratto” e, quindi, “non essendoci nell’ordinamento una norma attributiva del potere ad un soggetto di emanare provvedimenti in nome e per conto della P.A., si configurerebbe una fattispecie assimilabile al difetto assoluto di attribuzioni di cui all’art. 21-septies l. 241/90”[11]. Se ne deduce che, non essendo prominente l’esercizio di un potere pubblico da parte di un’amministrazione pubblica, le eventuali controversie sarebbero di competenza del giudice ordinario.
Ulteriore orientamento, all’opposto, attribuisce le suddette ipotesi alla carenza di potere in concreto perché l’atto posto in essere dal funzionario di fatto è il risultato di un cattivo utilizzo del potere amministrativo che ha come effetti l’annullamento ex art. 21-octies della legge n. 241/1990. In tal caso, invece, le controversie, semmai costituitesi, sarebbero di competenza del giudice amministrativo.
La teoria del funzionario di fatto, come già accennato, può essere invocata solamente quando sia esplicata a vantaggio del terzo, ma non quando essa costituisca per quest’ultimo un pregiudizio[12]. Nel primo caso verrà a rappresentarsi “una situazione tipica di apparentia iuris che (…) comporta la tutela del terzo il quale, in buona fede, incolpevolmente e ragionevolmente abbia fatto affidamento sull’attività del funzionario col quale sia entrato in contatto”[13]. Detta ipotesi si rafforza con riferimento al principio di continuità dell’azione amministrativa, secondo il quale deve evitarsi che si interrompano le funzioni pubbliche. Il principio di continuità dell’azione amministrativa sarebbe, tuttavia, da valutarsi recessivo nel caso in cui sia assente il presupposto della necessità e dell’urgenza perché soccombente rispetto al principio di legalità dell’azione amministrativa. Tale ultimo principio, assieme a quello di conservazione degli atti giuridici[14] ed a quello di certezza del diritto[15], non deve considerarsi in termini assoluti, benché abbisogna che vi sia un rapporto di diritto fra la continuità dell’azione amministrativa ed il buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[16].
Per tutto ciò, la giurisprudenza prevalente è indotta a considerare efficaci gli atti provenuti dal funzionario di fatto. Se, di contro, si tratti di atti negativi per i terzi destinatari, quindi di atti posti in essere dall’usurpatore di pubbliche funzioni o dal funzionario investito da un atto nullo o inesistente, si parla di nullità-inesistenza, perché l’atto risulterebbe adottato in difetto assoluto di attribuzioni, con la consequenziale irrisorietà dei termini decadenziali ai fini impugnatori. Invero, in base all’efficacia retroattiva dell’atto di nomina, il soggetto che ha posto in essere l’atto amministrativo ha agito in carenza di potere in concreto perché esterno all’organizzazione interna dell’apparato amministrativo, per cui il provvedimento adottato è da considerarsi pienamente e totalmente nullo.
Siffatta ipotesi è ricollegabile all’istituto dell’incompetenza assoluta e si risolve, così, in termini di inefficacia o di nullità, con la conseguenza che, se l’atto di nomina non fosse stato annullato, il privato potrebbe comunque avere un interesse alla sua impugnazione oltre il termine di decadenza previsto dalla legge, pur se entro e non oltre i sessanta giorni dalla notifica o dalla conoscibilità del provvedimento lesivo. Diversamente, “l’adesione alla tesi dell’illegittimità comporta la necessità di ottenere, come impugnativa congiunta, l’annullamento dell’atto presupposto a quello presupponente, dato che quest’ultimo, proprio perché semplicemente annullabile, sarebbe efficace fino all’eliminazione”[17].
Maggiormente articolato è il caso in cui si prendano in esame gli atti emanati dal funzionario la cui nomina, originariamente valida, sia ritenuta successivamente viziata, quindi caducabile. In tal caso, il venir meno dell’atto di investitura non pregiudica, in automatico, il venir meno anche dell’eventuale atto posto in essere dal funzionario di fatto il quale, tuttavia, apparirà come meramente viziato, passibile di impugnazione.
Ciononostante, quando l’atto lesivo sia stato adottato prima dell’annullamento dell’atto di nomina, il Consiglio di Stato, come anche il giudice di prime cure, ha disposto che l’annullamento della nomina non coinvolge anche la generalità degli atti già predisposti, ma “solo quelli rispetto ai quali l’illegittimità della costituzione dell’organo sia stata dedotta come motivo di invalidità derivata, mediante un rituale ricorso[18]. Invero, se l’atto di nomina del funzionario avente competenza generale non sia stato annullato, non si potrà configurare un interesse qualificato e volto alla sua impugnazione in occasione di quella degli atti da questo adottati. Si potrà, invece, procedere all’impugnazione accorpata dell’atto lesivo e dell’atto di nomina soltanto in previsione di un collegamento procedimentale fra i due, perché, in tal caso, l’atto di nomina si configurerebbe come un atto infraprocedimentale, ovverosia come un antecedente logico e cronologico rispetto all’emanazione dell’atto negativo, sul quale si tramandano i vizi dell’atto di nomina. In questa ipotesi, si potrà far valere l’illegittimità dello stesso atto di nomina nel termine decadenziale di sessanta giorni, solo da coloro che hanno un interesse preminente ad essere nominati[19].
I problemi connessi all’efficacia ed alla validità degli atti emanati dal funzionario di fatto, in relazione all’affidamento del cittadino nei confronti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, hanno fatto emergere il limite del ricorso al concetto di discrezionalità amministrativa al fine di moderare le risultanze del potere di autotutela, invece che ammettere al privato una posizione soggettiva autonoma. L’annullamento d’ufficio, “in quanto atto discrezionale, doveva tenere conto degli interessi presenti nella situazione esistente, ivi compresi quelli introdotti per effetto dell’emanazione del provvedimento del cui annullamento si doveva decidere”[20]. In tal modo, tuttavia, l’affidamento non esibisce certamente un valore aggiunto rispetto al diritto alla ponderatezza degli interessi che erompe direttamente dall’annullamento d’ufficio come potere discrezionale di amministrazione attiva.
Affinché l’affidamento sia considerato meritevole di tutela, occorre che esso sia legittimo e chiaro, ovvero occorre escludere le pretese alla conservazione di vantaggi acquisiti in mala fede o per effetto di una condotta dolosa o notevolmente colposa e, contemporaneamente, occorre che il comportamento delle istituzioni sia evidente nel determinare l’aspettativa. Ne deriva che soltanto le condotte attive e non omissive possano originare un legittimo affidamento.
Questo principio trova collocazione anche in ambito erariale. Con la soppressione di Equitalia nel 2016 e con la conseguente costituzione dell’Agenzia delle Entrate Riscossione che, diversamente dalla prima, ha natura di ente pubblico, il passaggio di tutto il personale nella suindicata Agenzia è avvenuto automaticamente e senza concorso, difformemente a quanto voluto dalla Carta costituzionale che, nel suo art. 97, dichiara espressamente che il personale di ogni amministrazione pubblica deve essere assunto per concorso, ancor più quando la qualifica richiesta dalla natura dell’incarico è quella di dirigente. Qualora ciò non avvenga, il rapporto venutosi ad instaurare è nullo, perché viene meno il titolo su cui fondare il conferimento di funzioni e poteri a quei soggetti che, ai sensi dell’art. 4 del D.lgs. n. 165/2001, devono procedere all’adozione di quegli atti che obbligano le pubbliche amministrazioni verso l’esterno. Le funzioni dirigenziali, in particolare, come disposto dall’art. 52 del citato decreto legislativo, sono nulle e, quindi, non possano produrre effetti, quando l’attribuzione delle stesse funzioni avvenga di fatto e non secondo diritto.
In merito, vi è stata una fondamentale pronuncia, in fase cautelare, del Consiglio di Stato che, con ordinanza n. 3213/2017, ha dichiarato illegittime le disposizioni legislative che hanno permesso l’assegnazione di funzioni di dirigenza senza il previo superamento di un concorso pubblico. Nondimeno, il giudice amministrativo di primo grado, dapprima con sentenza n. 6307 del 23 maggio 2019 e, dopo, con sentenza n. 6861 del 30 maggio 2019, ha ritenuto la possibilità di assumere posizioni dirigenziali senza concorso, facendo nascere un vero e proprio problema per il fisco e per la collettività, poiché ogni contribuente, che decida di impugnare un qualsivoglia atto di riscossione, potrebbe porre in evidenza la stessa questione.
Ma, se è vero che il funzionario di fatto è una figura che trova la sua origine e la sua ratio nel principio di conservazione degli atti giuridici per la continuità dell’azione amministrativa, dovrebbero valere, anche in tale caso, le conclusioni cui è giunta la Corte costituzionale nella pronuncia del 17 marzo 2015, n. 37, nonché la giurisprudenza di legittimità citata nell’indicata sentenza in relazione alla validità degli atti sottoscritti da personale incaricato di funzioni dirigenziali. Difatti, qui il giudice amministrativo ha precisato che “allorché venga annullata in sede giurisdizionale la nomina del titolare di un organo, l’accertata invalidità dell’atto di investitura non ha di per sé alcuna conseguenza sugli atti emessi in precedenza, tenendo conto che quando l’organo è investito di funzioni di carattere generale, il relativo procedimento di nomina ha una sua piena autonomia, sicché i vizi della nomina non si riverberano sugli atti rimessi alla sua competenza generale”[21].
Se ne deduce che gli atti emanati dal dirigente-funzionario di fatto conservano la loro validità e la loro efficacia sia pure qualora si abbiano irregolarità nell’atto di investitura e di inefficacia della nomina del sottoscrittore, considerata la diretta rilevabilità dei medesimi atti all’Ente pubblico dal quale derivano.
Pertanto, richiamando la pronuncia del 1^ aprile 2015, n. 63/01/15 della Commissione tributaria provinciale di Gorizia, la succitata sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015 non deve, in alcun modo, produrre “la caducazione (nullità) degli avvisi di accertamento (…) in trattazione, ritenendo si debba applicare la teoria del funzionario di fatto. Invero la giurisprudenza assolutamente prevalente afferma che gli atti ‘medio tempore’ adottati dal funzionario la cui nomina sia stata annullata sono da considerarsi efficaci, essendo irrilevante verso i terzi il rapporto fra la pubblica amministrazione e la persona fisica dell’organo che agisce”.
Si potrà, quindi, legittimarsi l’impugnazione dell’atto di investitura soltanto se esiste un collegamento fra il procedimento di investitura dell’organo amministrativo ed il procedimento di adozione dell’atto considerato pregiudizievole. Infatti, continua la sentenza n. 63/01/15, “qualora l’organo è investito di funzioni di carattere generale, l’efficacia degli atti posti in essere deriva dal fatto che il relativo procedimento di nomina ha una piena autonomia dal procedimento di emanazione degli atti”.
In ultimo, sempre a favore della tesi sul funzionario di fatto, si è espressa la Commissione tributaria provinciale di Pesaro con sentenza del 28 aprile 2015, n. 309/1/15, la quale, sempre richiamando la pronuncia della Corte costituzionale n. 37/2015, ha enumerato che “la funzionalità delle Agenzie non è condizionata dalla validità degli incarichi dirigenziali previsti dalla disposizione censurata”, per cui, in base a quanto costituzionalmente previsto con gli artt. 53 e 97, la decisione della Corte costituzionale produce “effetti solo per il futuro, mentre, per gli atti già emessi, la validità è fuori discussione purché essi promanino e siano riferibili all’ufficio che esprime la volontà impositiva”.
Si ritorna, di conseguenza, pur sempre a parlare di buona fede e di legittimo affidamento, perché il principio del funzionario di fatto non può essere invocato a danno del terzo che, inconsapevolmente, ha fatto affidamento sulla provenienza dell’atto amministrativo. Viene a rilevarsi lo stato psicologico non del soggetto che agisce, quanto di colui nella cui sfera giuridica si producono le vicende giuridiche. Il bisogno di difendere gli effetti degli atti prodotti garantisce la buona fede del pubblico che viene a contatto con il funzionario per sua necessità e non ha ragione di sospettare, né tanto meno di investigare, sulla validità della sua nomina o sul fatto che la sua permanenza in servizio non sia contrastata dall’autorità superiore[22].
Il principio dell’affidamento trova la sua consistenza nella fiducia incolpevole della situazione costituitasi con il provvedimento amministrativo, pur se compiuto da un funzionario di fatto, perché una riduzione del livello di tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione pubblica provocherebbe una concreta frustrazione delle esigenze di affidamento del privato nei riguardi del corretto esercizio del potere pubblico.
Motivazione, questa, che determina un’esigenza di restringimento dell’operatività degli atti amministrativi ai soli atti sfavorevoli per il cittadino, con la conseguenza che per gli atti ad esso favorevoli progredirebbe a valere il consueto regime di annullabilità, per il fatto che “l’annullamento del provvedimento favorevole, deciso dopo un’incensurabile ponderazione degli interessi, è un comportamento lesivo dell’affidamento di chi abbia confidato, senza colpa, nella stabilità della situazione creata dall’amministrazione”[23].
Ne consegue che il danno da affidamento, o danno risarcibile, viene a limitarsi “alla perdita che sarebbe stata evitata se non si fosse riposta fiducia nella spettanza di quanto è stato a suo tempo attribuito con il provvedimento"[24].
In verità, il principio di buona fede è stato sempre posto sul piano della funzione amministrativa collocandosi come confine all’esercizio della discrezionalità: l’amministrazione, infatti, deve esplicitamente vagliare le situazioni di vantaggio ottenute dai privati a seguito di una previa attività amministrativa. Ciò porta ad affrancare il canone della buona fede dal rapporto con precedenti comportamenti afferenti all’amministrazione e, quindi, dal principio di affidamento. Siffatto dovere consegue all’obbligo di solidarietà fra soggetti, consistendo nell’esercizio di diritti in modo corretto rispetto alle esigenze sociali dettate negli standard valutativi, legislativi o giurisprudenziali, senza sacrificare eccessivamente la sfera giuridica altrui.
Ne risulta che “demiurgo dell’azione” non sarà solamente “la sacerdotale amministrazione ma anche il cittadino”, perché assumerebbero significato e si fonderebbero “con i contributi dell’amministrazione anche quelli forniti dal privato coinvolto nell’agire amministrativo”[25]. Abbandonando l’interpretazione formalistica del procedimento amministrativo, la clausola della buona fede attribuirebbe importanza giuridica a comportamenti e/o a manifestazioni che, pur non essendo ricompresi nella disciplina formale del procedimento, a questa si congiungono.
La mancanza, quindi, di una qualificazione normativa e l’espletamento di un’attività informale o di fatto conduce ad un nuovo volto del rapporto procedimentale, più autonomo rispetto al rapporto provvedimentale, dal quale deriva anche un nuovo volto dell’amministrazione pubblica, nella quale la forza suppletiva della buona fede consente la realizzazione piena della persona, soddisfacendo i suoi specifici interessi e garantendone il legittimo affidamento.
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[1] Sul rapporto di equilibrio intercorrente fra privato ed amministrazione pubblica, si vedano F. BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. diritto pubblico, 1952, 118; ID., L’amministrazione oggettivata: un nuovo modello, in Riv. trim. scienza dell’amministrazione, 1978, 6; ID., Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Guicciardi, Padova, 1975, 893; G. ARENA, Introduzione all’amministrazione condivisa, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1997, 29; G. BERTI, Procedimento, partecipazione, procedura, in Studi in memoria di E. Giucciardi, Padova, 1975, 779; V. OTTAVIANO, Oggettivazione e partecipazione nel pensiero di F. Benvenuti, in Jus, 2000, 187.
[2] C. CUDIA, Funzione amministrativa e soggettività della tutela, dall’eccesso di potere alle regole del rapporto, Milano, 2008, 162, nota 1.
[3] M.S. GIANNINI, La responsabilità precontrattuale dell’amministrazione pubblica, in Scritti in onore di Jemolo, Milano, 1963, 285; ID., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 518; G. MIELE, La manifestazione di volontà del privato nel diritto amministrativo, Roma, 1931, 105; M. SANTILLI, Il diritto civile dello Stato, Milano, 1985, 83.
[4] A. ROMANO, Amministrazione, principio di legalità, in Dir. amm., 1999, 120; P.M. VIPIANA, L’autolimite della pubblica amministrazione. L’attività amministrativa tra coerenza e flessibilità, Milano, 1999, 176; A. POLICE, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1997. Si vedano, invece, in giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. V, 30 maggio 2005, n. 2755, in Foro amm. Cons. St., 2005, 1497.
[5] F. BENVENUTI, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Guicciardi, Padova, 1975, 819. Si vedano pure U. ALLEGRETTI, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 272; F. MANGANARO, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995, 57; F. BENATTI, Principio di buona fede e obbligazione tributaria, in B.T., 1.
[6] U. ALLEGRETTI, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 274.
[7] F. MERUSI, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 128.
[8] V. ANTONELLI, Contatto e rapporto nell’agire amministrativo, Padova, 2007, 219.
[9] Si veda, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 20 maggio 1999, n. 853, secondo cui la teoria del funzionario di fatto “si fonda sull’esigenza di garantire i diritti dei terzi che vengono a contatto col funzionario medesimo e si sostanzia dunque nella tutela della buona fede del privato; ed in questa prospettiva gli effetti presi in considerazione dalla teoria in esame sono solo quelli favorevoli al privato. E’ stato anche affermato che la teoria del c.d. funzionario di fatto si fonda sul principio di continuità dell’azione amministrativa”.
[10] Secondo l’art. 347 c.p., si tratta di colui che si appropria, con dolo, di poteri funzionali pubblici.
[11] A.P. ESPOSITO, Il funzionario di fatto: in particolare, la sorte degli atti adottati, in www.diritto.it, 2017.
[12] Si annoverano, fra le tante, Tar Lazio, Roma, Sez. II, 15 marzo 2012, n. 2550; Cons. Stato, Sez. IV, 20 maggio 1999, n. 853.
[13] A.P. ESPOSITO, Il funzionario di fatto: in particolare, la sorte degli atti adottati, in www.diritto.it, 2017.
[14] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 6 giugno 2001, n. 3070; Cons. Stato, Sez. V, 17 febbraio 2003, n. 821; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 14 febbraio 2006, n. 1073.
[15] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24 maggio 2013, n. 2861.
[16] Si vedano, per un maggiore approfondimento in ordine a questo aspetto, S. FANTINI, Attività amministrativa del funzionario di fatto ed invalidità derivata, in B. CAVALLO (a cura di), Il funzionario di fatto, Milano, 2005; M. DE PALMA, Sulla teoria del funzionario di fatto, in Urb. e app., 2000, 429 ss.; S. MAGRA, Principio di conservazione del provvedimento amministrativo fra nullità, annullabilità e inesistenza, in www.overlex.com, 2006.
[17] M. DE PALMA, Sulla teoria del funzionario di fatto, in Urb. e app., 2000, 433 ss.
[18] Cons. Stato, Ad. Plen., 29 febbraio 1992, n. 4; T.A.R., Marche, 29 luglio 1999, n. 909, in Foro amm., 2000, p. 1009; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 14 febbraio 2006, n. 1073.
[19] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24 febbraio 1996, n. 232. Si vedano, in dottrina, per una maggiore disamina, i contributi di V. GHERGHI, Il funzionario di fatto. Analisi dell’istituto, in Nuova rass., 2002, 777 ss.; P.G. SCARABINO, S. SCARABINO, Il funzionario di fatto tra realtà e contraddizioni, in Giust. Amm., 2003, p.t. 111, 607 ss.
[20] F. TRIMARCHI BANFI, L’annullamento d’ufficio e l’affidamento del cittadino, in Dir. amm., 2005, 843.
[21] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21 maggio 2008, n. 2407; Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2005, n. 992; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 8 febbraio 2011, n. 402; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 14 febbraio 2006, n. 1073.
[22] Cfr. A.M.R. LIUZZO, Il funzionario di fatto e la tutela del legittimo affidamento dei privati, in Giustamm.it, n. 11/2009, par. 8; L. D’ANGELO, La nullità del provvedimento amministrativo ex L. n. 15/2005: le esequie del funzionario di fatto, in Giustamm.it, n. 4/2005, par. 3.
[23] F. TRIMARCHI BANFI, L’annullamento d’ufficio e l’affidamento del cittadino, in Dir. amm., 2005, 864.
[24] C. CUDIA, Funzione amministrativa e soggettività della tutela, dall’eccesso di potere alle regole del rapporto, Milano, 2008, 257-258.
[25] V. ANTONELLI, Contatto e rapporto nell’agire amministrativo, Padova, 2007, 222. Si vedano, a riguardo, A. ZITO, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996, 133; G. PASTORI, La disciplina generale dell’azione amministrativa, in Annuario 2002 dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 34.
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