Recenti arresti giurisprudenziali in tema di operazioni inesistenti
1. Corte di Cassazione, Sez. Pen., 1 aprile 2020, n. 10916: la fattura che reca un committente diverso da chi ha ricevuto la prestazione è soggettivamente inesistente
2. Corte di Cassazione, Sez. Trib., Ordinanza 20 febbraio 2020, n. 4428: è onere dell’Amministrazione provare la partecipazione alla truffa e l’assenza di buona fede del contribuente
1. Corte di Cassazione, Sez.Pen., 1 aprile 2020, n. 10916: la fattura che reca un committente diverso da chi ha ricevuto la prestazione è soggettivamente inesistente
1.1. Il principio di diritto
La fattura che indica un committente diverso da chi ha ricevuto la prestazione deve ritenersi soggettivamente inesistente; inoltre, se nel documento sono descritte attività diverse da quelle svolte, può configurarsi anche un’operazione oggettivamente inesistente.
1.2. Il caso
La vicenda ha ad oggetto la condanna di un rappresentante legale della società, in concorso legale con altri, per dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di altre fatture per aver indicato nelle dichiarazioni di alcune società del gruppo fatture relative a prestazioni effettuate su immobili di proprietà privata (del presidente del Cda) anziché sugli immobili delle società di capitali, come invece risultava dai documenti fiscali, così evadendo imposte sui redditi e Iva.
I giudici di primo e secondo grado avevano ritenuto sussistente sia la fatturazione soggettivamente inesistente - atteso che le società destinatarie delle fatture erano diverse da quelle cui erano state rese le prestazioni - sia oggettivamente inesistente in quanto nei documenti erano indicati immobili differenti da quelli oggetto degli interventi edilizi.
Con ricorso per Cassazione, la difesa impugnava la sentenza di Appello, asserendo che non poteva configurarsi alcuna fittizietà né oggettiva né soggettiva, in quanto, da punto di vista oggettivo, le fatture erano regolari poiché l’emissione alle società del gruppo era corretta trattandosi di cessioni di beni e prestazioni di servizi effettivi e per importi corrispondenti ai pagamenti realmente eseguiti; dal punto di vista soggettivo, i fornitori coinvolti erano effettivi e non soggetti fittiziamente interposti.
Peraltro, secondo la difesa, un ulteriore elemento di correttezza relativo alle operazioni de quibus, era che l’Iva era stata sempre regolarmente versata, senza alcun danno per l’erario.
1.3. La motivazione della sentenza
La Suprema Corte, ritenendo le doglianze della difesa infondate, ha affermato che il punto controverso della questione ha ad oggetto la qualificazione giuridica delle fatture, ovvero queste rientrino nella categoria delle fatture emesse a fronte di operazioni oggettivamente e/o soggettivamente inesistenti ai sensi dell’ articolo 1, lettera a), D.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui le fatture per operazioni inesistenti non solo quelle emesse a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto od in parte o che indicano corrispettivi o imposte superiori a quella reale, ma anche le fatture che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.
Ebbene, le fatture soggettivamente inesistenti sono quelle caratterizzate dalla divergenza tra la rappresentazione documentale e la realtà attinente ad uno dei soggetti che intervengono nell'operazione. Sulla base di ciò, a parere dei giudici di legittimità, è stato correttamente ritenuto sia dal giudice di primo grado che dalla Corte di Appello che le fatture in contestazione furono emesse per prestazioni mai eseguite per conto delle società riferibili alla società capogruppo.
Al riguardo, argomenta la Suprema Corte, l'inesistenza soggettiva dell'operazione documentata in fattura non è limitata al caso delle frodi carosello, dove l'inesistenza soggettiva si riferisce all'emittente il documento, ma ricorre ogni qualvolta ci sia una interposizione fittizia di una qualsiasi delle parti effettive dell'operazione contrattuale.
Difatti, nel caso de quo, poiché il destinatario effettivo della prestazione (proprietari privati degli immobili) era differente da coloro per cui erano state emesse le fatture (società di capitali) non vi era dubbio sulla fittizietà soggettiva del documento.
Ciò posto, il Supremo Consesso - evidenziando che la Corte di Appello aveva correttamente ritenuto che le fatture fossero state emesse a fronte di operazioni soggettivamente e, in parte, oggettivamente inesistenti - ha tuttavia, rammentato che: “[…] secondo l'indirizzo prevalente della giurisprudenza civile nel caso in cui il destinatario della fattura abbia adempiuto al pagamento della prestazione, seppure effettuata in vantaggio o su richiesta di altri, (in tal senso si vedano, tra le altre, Cass. Civ. Sez. 5, n. 24426 del 30/10/2013, Rv. 629420; Sez. 6 - 5, Ord. n. 25249 del 07/12/2016, Rv. 642031; Sez. 5, n. 27566 del 30/10/2018, Rv.651269), va escluso il carattere fittizio degli elementi passivi indicati nella dichiarazione dei redditi in forza della concretezza di tale esborso, senza che sia rilevante la circostanza che il destinatario delle fatture sia un soggetto diverso dal committente/beneficiario della prestazione. Peraltro restano valide le regole generali in tema di deduzione dei componenti negativi del reddito previste dal testo unico per le imposte dirette, secondo le quali la concreta deducibilità del costo è, in ogni caso, subordinata alla verifica dei requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr. Cass. civ. Sez. 5, ord. n. 32587 del 12/12/2019, Rv. 656018 e così, in motivazione, anche Cass. pen. Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2015, De Angelis, Rv. 265154). La base normativa di tale orientamento giurisprudenziale è costituita dall'intervento sulle cd. semplificazioni fiscali (Decreto Legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 44) che ha limitato l’indeducibilità dei costi a quelli direttamente utilizzati per il compimento di atti qualificabili come delitto non colposo”.
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha efficacemente chiarito: “la partecipazione alla frode carosello o la mera consapevolezza della stessa, da parte del cessionario, non determina "ex se" il venire meno dell'"inerenza" all’attività d'impresa del bene di cui all'operazione soggettivamente inesistente e non ne esclude, pertanto, la deducibilità, dovendosi tenere distinti gli effetti della condotta del contribuente in relazione alla disciplina dell'IVA e a quella delle imposte dirette, atteso che, nel primo caso, la condotta dolosa o consapevole del cessionario, a cui è parificata l'ignoranza colpevole, impedisce l'insorgenza del diritto alla detrazione per mancato perfezionamento dello scambio, non essendo l'apparente cedente l'effettivo fornitore, mentre, ai fini delle imposte dirette, l'illecito o la mera consapevolezza di esso non incide sulla realtà dell'operazione economica e sul pagamento del corrispettivo in cambio della consegna della merce, per cui il costo dell'operazione, ove imputato al conto economico, può concorrere nella determinazione della base imponibile ai fini delle imposte dirette nella misura in cui il bene o servizio acquistato venga reimpiegato nell'esercizio dell’attività d'impresa e sempre che non venga utilizzato per il compimento di un delitto non colposo" (così Cass. civ. Sez. 5, n. 13803 del 18/06/2014, Rv. 631555)”.
Tali principi, però, sono invocabili soltanto in caso di operazioni soggettivamente inesistenti e non anche in caso di operazioni oggettivamente inesistenti (Cass. civ. Sez.5, n. 33915 del 19/12/2019 Cass. civ. Sez.5, n. 33915 del 19/12/2019).
Ad abundantiam, si dà contezza del fatto che, nella sentenza in esame, il Supremo Consesso, in riferimento alle imposte sui redditi, ha indicato alcune pronunce favorevoli all’indeducibilità del costo in presenza di fatture soggettivamente inesistenti, ma ad ogni modo, non ha preso posizioni in quanto nella specie, a parte la verifica sull’inerenza, si era in presenza anche di documenti oggettivamente fittizi.
Ebbene, la Suprema Corte, con la sentenza che ci occupa (Cass. n. 10916/2020), ritenendo infondate le doglianze della difesa, ha ritenuto che “[…] le fatture emesse avessero riguardato operazioni inesistenti, seppure in parte, anche sotto il profilo oggettivo, dovendo essere compresa nell'inesistenza giuridica oggettiva qualunque discrasia tra le indicazioni fattuali contenute nel documento e l'operazione effettuata”.
Tale posizione, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, è perfettamente in linea con la valutazione effettuata dai giudici di prime e seconde cure che hanno statuito, nella sostanza, che le fatturazioni attenevano a operazioni inesistenti sotto il profilo anche oggettivo, giudicando gli elementi probatori acquisiti pienamente idonei a provare che le fatture attestavano falsamente che i lavori erano stati svolti presso immobili delle società di capitali, destinatarie dei documenti fiscali, mentre erano stati eseguiti presso gli immobili di proprietà privata, con conseguente divergenza dalla realtà del luogo della prestazione e della causale, ossia dell'oggetto degli interventi di ristrutturazione.
Difatti, i giudici di legittimità hanno condiviso quanto affermato dai giudici di primo grado prima e di Appello poi, ossia che le operazioni fatturate dalle società sono intercorse in realtà tra soggetti diversi e con causali, modalità, oggetti e luoghi diversi da quelli indicati nelle fatture, le quali di conseguenza sono "false" sotto il profilo sia oggettivo che soggettivo, per cui le stesse non possono costituire per il contribuente, sotto il profilo del diritto tributario, titolo ai fini del diritto alla detrazione dell'IVA e alla deduzione dei costi.
Infatti, all'esito della ricostruzione probatoria svolta nel corso dei due gradi di merito, è risultato provato che la committente dei lavori sugli immobili di proprietà privata fosse il rappresentante legale della società, d'intesa con il coniuge, che aveva affidato la gestione allo studio di architetti di propria fiducia, disponendo di gestire i pagamenti e la contabilità dei lavori, "al solito modo", ossia addebitando i costi dei lavori alle società del Gruppo, come se le prestazioni fossero effettuate non già sui beni di proprietà privata, ma su cespiti immobiliari di tali società.
2. Corte di Cassazione, Sez. Trib., ordinanza 20 febbraio 2020, n. 4428: è onere dell’Amministrazione provare la partecipazione alla truffa e l’assenza di buona fede del contribuente
2.1. Il principio di diritto
La Corte di Cassazione nell’ordinanza n.4428/2020 in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, ha affermato che nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell'Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione l'IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall'effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l'uso della diligenza media, che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un'evasione o in una frode.
Tale onere probatorio può essere assolto da parte dell’Amministrazione Finanziaria attraverso presunzioni semplici, prendendo in considerazione tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l'emissione della relativa fattura, evaso l'imposta o compiuto una frode.
Per tale ragione, ove l'Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, conseguentemente grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.
2.2. Il caso
La vicenda trae origine dalla notifica di diversi avvisi di accertamento per gli anni 2004-2005-2006, da parte dell’Agenzia delle Entrate, Direzione provinciale di Milano, con richiesta di un importo di somme superiori a 50milioni di euro, tra imposte, sanzioni e interessi.
A parere dell’Ufficio, nel caso di specie si configurava una “frode carosello” atteso che la società acquirente avrebbe dovuto sapere che l’operazione era stata effettuata per evitare alla società venditrice di pagare l’Iva.
Il ricorso presentato dalla società acquirente veniva accolto dai giudici della CTP di Milano; successivamente l’Agenzia delle Entrate presentava l’appello innanzi alla CTR Lombardia che, a sua volta, rigettava l’appello, confermando la sentenza del giudice di prime cure, affermando che la società acquirente non poteva conoscere i comportamenti successivi della società venditrice, che si era trasferita a Malta senza pagare le imposte.
A seguito del rigetto dell’appello da parte del giudice di seconde cure, l’Ufficio ha proposto ricorso per Cassazione.
2.3. La motivazione della sentenza
La Suprema Corte ha affermato che nel caso de quo si verte in tema di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti; a tal proposito, prima di rassegnare le conclusioni relativamente ai motivi di doglianza, i giudici di legittimità hanno ripercorso le sentenze della giurisprudenza di legittimità afferenti alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di operazioni soggettivamente inesistenti.
A riguardo, la Corte di Cassazione in precedenti pronunce ha statuito che “nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell'Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione l'IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall'effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere (in tal senso anche Corte di Giustizia UE 22 ottobre 2015, causa C-277/14 PPUK; anche 15 luglio 2015, causa C-159/14 Koela -N; 15 luglio 2015, causa C-123/14 Itales; 13 febbraio 2014" in causa C-18/13 Maks Pen Eood; 21 giugno 2012, in causa C-80/11 e C-142/11, Mahageben et David;), con l'uso della diligenza media, che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un'evasione o in una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente e' stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l'emissione della relativa fattura, evaso l'imposta o compiuto una frode (Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873)”.
Ciò posto, nel caso in cui l’Amministrazione assolva a predetto onere probatorio, graverà sul contribuente l’onere di provare - al fine di non essere coinvolto in un’operazione volta a evadere l’imposta - di aver utilizzato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto.
Occorre precisare che, a tal fine, non assumerà rilievo né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24 agosto 2018, n. 21104; Cass., 14 marzo 2018, n. 6291; Cass., 28 marzo 2018, n. 7613).
Di converso, l’Amministrazione Finanziaria non potrà limitarsi a dimostrare l'inidoneità operativa del cedente, ma deve dimostrare che il cessionario quantomeno fosse in grado di percepire ("avrebbe dovuto") tale inidoneità in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore (Cass., 6864/2016).
I giudici di legittimità nell’ordinanza in esame (Cass. n.4428/20) hanno chiarito che l'immediatezza dei rapporti induce ragionevolmente a escludere in via presuntiva - a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell'attività economica - l'ignoranza incolpevole del cessionario o committente circa l'avvenuto versamento dell'Iva a soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all'obbligo del pagamento dell'imposta (Cass. n. 8846/2019; Cass., n. 2398/2018; Cass., n. 30559/17; Cass., 24490/15; Cass., n. 17173/2018; Cass. n. 2565/2019).
In predette ipotesi, il contribuente, in ossequio ai principi ordinari dell’onere della prova, ex art. 2697 c.c., dovrà provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi altrimenti negare il diritto alla detrazione dell'Iva versata (Cass.,n. 32092/2018; Cass., n. 20059/14; Cass. n. 10001/2018; Cass., n. 17161/2018).
Pertanto, a parere del Supremo Consesso “Va tenuto conto della qualificata posizione professionale ricoperta dal contribuente, sicché se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell'esigibile, in presenza di indici personali od operativi dell'operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate, oppure tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell'imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l'aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo" (Cass., n. 3591/2019).
Nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, l'Amministrazione non aveva indicato elementi indiziari idonei a dimostrare la conoscenza o conoscibilità da parte della società acquirente della condotta illecita posta in essere dalla società venditrice per evitare di pagare l’IVA.
Difatti, in base ai principi pacifici della Cassazione, il contribuente che acquista in buona fede può detrarre l’Iva e dedurre i relativi costi, atteso che non è responsabile del comportamento illegittimo dei suoi fornitori che evadono o commettono frodi.
In conclusione, la Suprema Corte, alla luce del pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, non avendo l’Amministrazione Finanziaria assolto all’onere probatorio, ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e l’ha, altresì, condannata al pagamento delle spese di giudizio.
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